Un nuovo processo, con il ricorso di Mincione che contesta la regolarità di quello d’Oltretevere, per l’acquisto del palazzo da 275 milioni di sterline. La segreteria di Stato chiama a testimoniare Peña Parra, vice di Parolin. Il ruolo dell’Onu
Il processo sulla compravendita con fondi della Segreteria di stato vaticana dell’immobile di lusso situato al civico 60 di Sloane Avenue, a Londra, non è finito, anzi ricomincia nella capitale inglese. Sì, perché nelle prossime settimane si terrà un procedimento giudiziario presso un’alta corte inglese dopo che è stato accolto il ricorso di Raffaele Mincione contro la Segreteria di Stato. Tanto è seria la cosa, che il Vaticano chiamerà un solo testimone per la sua difesa: il Sostituto per gli affari generalo della Segreteria di Stato, mons. Edgar Peña Parra, uno dei personaggi chiave della vicenda giudiziaria dipanatasi fra Vaticano, Regno Unito, Lussemburgo e Svizzera.
Mincione, a sua volta, è stato uno degli uomini d’affari coinvolti nell’affare di Sloane Avenue, imputato nel processo svoltosi in Vaticano e «condannato alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione, euro ottomila di multa con interdizione perpetua dai pubblici uffici». I reati ascritti a Mincione erano diversi, si leggeva nella sentenza del tribunale del 16 dicembre scorso, e altrettanto numerosi quelli dai quali veniva assolto, in un coacervo di fattispecie differenti che andavano dal diritto canonico a quello civile. «Non vedo l’ora che queste questioni vengano esaminate da un sistema giudiziario indipendente e rispettato a livello internazionale», ha detto il finanziere commentando l’inizio del processo.
Sentenza senza motivazioni
Fra l’altro, a distanza di oltre 6 mesi dalle condanne pronunciate dalla giustizia d’Oltretevere, non sono ancora uscite le motivazioni della sentenza, fatto che non aiuta certo a fare chiarezza. Mincione è stato l’esperto di finanza internazionale che, dal 2014 al 2018, ha gestito una parte delle risorse della Segreteria di Stato, circa 200 milioni, facendo realizzare, fra le altre cose, attraverso il fondo Athena, l’investimento sull’immobile londinese. Il passaggio dell’edificio dalle mani di Mincione a quelle del Vaticano che voleva recuperare il pieno controllo dell’investimento, attraverso una società controllata dal Gianluigi Torzi, la lussemburghese Gutt, è il cuore giudiziario della questione.
Torzi (che in ogni caso incontrò almeno due volte personalmente il papa), infatti, mantenne il controllo di 1000 azioni con diritto di voto a fronte delle 30mila nelle mani della Segreteria di Stato che non contavano praticamente nulla. Qui scoppiava il bubbone: truffa, complotto ai danni della Santa Sede, estorsione, peculato, erano fra le accuse che piombavano sui 10 imputati chiamati (fra quali il card. Becciu) in causa dai pm vaticani. Solo che, carte alla mano, il Vaticano – tramite mons. Alberto Perlasca (capo ufficio amministrativo all’epoca dei fatti), lo stesso mons. Edgar Peña Parra, il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato - aveva dato il proprio placet all’operazione con tanto di firme sotto i contratti relativi alla compravendita dell’immobile, e lo stesso papa Francesco era stato informato dell’operazione.
Il prezzo dell’immobile
Sono cose in parte note, le dichiarò anche Peña Parra a suo tempo, ma ora saranno sottoposte all’attenzione di un’alta corte di giustizia inglese. La sentenza del luglio del 2022, con la quale un tribunale inglese accoglieva il ricorso di Mincione, affermava fra le altre cose: «Un punto di partenza potrebbe essere considerare quale fosse il vero valore dell'Immbile al momento dei fatti».
L'essenza della causa, si rilevava, è che la Segreteria di Stato avesse acquistato l‘immobile a un prezzo sostanzialmente maggiore rispetto al vero valore dello stesso. Se la Segreteria di stato ha usufruito del prezzo di mercato, concludeva la sentenza, ha ottenuto un bene che valeva quanto era stato pagato (almeno per quanto riguarda la transazione in oggetto) «e non sembra avere validi motivi di reclamo». Al contrario, un prezzo troppo alto costituirebbe una prova attendibile di corruzione.
Di certo nel ricorso presentato da Mincione non mancano le valutazioni esterne al suo gruppo che certificano come corretta la valutazione dell’immobile di 275 milioni di sterline. Staremo a vedere come risponde il Vaticano.
Potere assoluto
Inoltre, sostengono gli avvocati di Mincione nel loro ricorso, «non è chiara quale sia l’esatta base giuridica della sua condanna in assenza di accertamenti» da parte del Tribunale vaticano, tuttavia «sembra basarsi su una disposizione di diritto canonico relativa all’amministrazione dei beni ecclesiastici», come si legge in effetti nel comunicato finale relativo alla sentenza di condanna, e qui si contesta ovviamente per quale ragione il finanziere fosse tenuto a conoscere una legge della Chiesa.
Pure per tale motivo Mincione si è rivolto alle Nazioni Unite, cioè per avere un giudizio di condanna dell’operato del Vaticano nel corso del processo (Mincione non si può appellare alla corte europea dei diritti dell’uomo perché la Santa Sede non aderisce al Consiglio d’Europa).
Su questo crinale si apre del resto, pure il tema del “giusto processo” e dell’indipendenza dei magistrati del papa. Fra le altre cose, è in discussione il potere assoluto del pontefice che ha modificato i poteri d’indagine dei promotori di giustizia attraverso quattro “rescripta” di cui le difese degli imputati non erano neanche a conoscenza.
Secondo quanto ha scritto Geraldina Boni, docente di diritto ecclesiastico all’università di Bologna nonché consultore del Dicastero vaticano per i testi legislativi, in un intervento pubblicato dalla rivista giuridica dell’università di Milano dal titolo: “Il ‘processo del secolo’ in Vaticano e le violazioni del diritto”: “Gli interventi volti a formalizzare e pubblicizzare la legge processuale…ne assicurano la conoscenza potenziale da parte dei suoi destinatari, specie di coloro che versano in una situazione di vulnerabilità all’interno del procedimento - ossia gli imputati -, gettando le basi per la pianificazione di un’appropriata strategia difensiva che altrimenti risulterebbe vulnerata al cospetto di norme poco chiare o addirittura riservate, immesse in processi in corso e perciò efficaci all’insaputa dei loro protagonisti”.
Quindi la studiosa aggiungeva: Oltretevere “anche i processi giudiziari possono rivelarsi altamente problematici laddove il sistema delle garanzie fondamentali degli indagati e degli imputati ceda, mediante l’adozione di anomali Rescripta dettati all’emergenza e dalla contingenza...Questa deriva, probabilmente etichettabile come ‘giustizialista’, è assai preoccupante, finendo per giustificare qualsiasi condotta e qualsiasi uso del potere sovrano al fine della ricerca del colpevole a ogni costo, nel caso accentuando il divario tra le parti così profondamente da ingenerare una disparità oggettiva di trattamento al punto da divenire irreparabile”.
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