L’isola colpita dalla siccità paga anche anni di sprechi e mala politica. Sono ben tre gli impianti abbandonati che avrebbero dovuto rendere dolce l’acqua marina. E c’è una diga che sversa l’acqua nel mare
Ci sono dei luoghi che più di alti raccontano e svelano i misteri di questa Sicilia senz’acqua, con i razionamenti a Palermo, i conti alla rovescia della Protezione Civile («c’è acqua fino a dicembre» l’ultimo bollettino) e le polemiche sui turisti in fuga.
Le task forcesi riuniscono, finanziano l’acquisto di autobotti e la trivellazione di nuovi pozzi, i sindaci firmano ordinanze per multare ignare signore sorprese a innaffiare l’orto di giorno – è vietatissimo –, i carabinieri inseguono i ladri d’acqua, quelli che deviano i corsi dei pochi anemici torrenti rimasti o svuotano di notte cisterne altrui.
Dissalatori fantasma
Questo viaggio potrebbe cominciare in contemporanea da tre luoghi, diversi e lontani: Gela, Porto Empedocle, Trapani. Qui si trovano altrettanti dissalatori costruiti anni fa dalla regione: sulla carta, servono per aspirare l’acqua marina, filtrarla e ricavarne acqua dolce da immettere nella rete idrica.
Sulla carta. Perché i dissalatori in Sicilia sono abbandonati da più di dieci anni. Troppo alti i costi di gestione e di funzionamento. Il consumo di energia elettrica è enorme.
Il dissalatore di Porto Empedcole fu voluto nel 2005 dall’allora presidente della regione, nonché commissario straordinario dell’emergenza idrica in Sicilia, Totò Cuffaro. Sempre lui. Costo: 6 milioni di euro. Inaugurazione: 2007. A regime avrebbe dovuto immettere 100 litri di acqua al secondo nella rete idrica (3 milioni di metri cubi all’anno). Ha funzionato, a singhiozzo, nel 2012. Poi è stato chiuso e abbandonato.
Chiuso e abbandonato è anche il dissalatore di Trapani, la cui storia è ancora più paradigmatica. Sorge in periferia, nel territorio di Nubia, in piena zona di saline, secondo un’ironia tipica delle disgrazie di Sicilia. Avrebbe dovuto risolvere i problemi di Trapani e dei comuni vicini, perennemente assetati. E invece ha funzionato poco e male. È fermo dal 2014, anno in cui si è verificato l’ultimo e definitivo stop, dopo tante, troppe, interruzioni dovute a problemi di ogni tipo.
I ladri si sono portati via tutto. Pure le porte. Tanto che ai tecnici della regione e della Protezione civile nemmeno hanno dato le chiavi, prima di andare a fare il sopralluogo per valutarne le condizioni.
È tutto aperto: l’impianto, entrato in funzione nel 1995, gli uffici, gli archivi con tutti i progetti. Sulla carta avrebbe dovuto produrre oltre otto milioni di metri cubi di acqua dissalata l’anno. Ma solo di gasolio il dissalatore costava trenta milioni di euro l’anno. Per non parlare dei danni alle condutture idriche dovuti all’acqua non correttamente dissalata.
Abbandonato dal 2014, il dissalatore di Trapani è destinato a rimanere un relitto. La tecnologia obsoleta e le strutture deteriorate lo rendono inutilizzabile, un simbolo di spreco e di infiltrazioni mafiose.
Già nel 1999, la commissione parlamentare Antimafia aveva denunciato l'appalto del dissalatore come parte del "patto del tavolino", il sistema con cui Cosa Nostra si aggiudicava le grandi opere pubbliche in Sicilia. Angelo Siino, il "ministro dei lavori pubblici" di Cosa Nostra, orchestrò l'assegnazione dell'appalto all'impresa di Filippo Salomone, in collaborazione con la Lega delle cooperative.
Le indagini sul dissalatore si inserirono in un più ampio contesto di inchieste della Procura nazionale antimafia sulla gestione delle risorse idriche in Sicilia. Un filone investigativo si concentrò sulle tangenti pagate ai politici per la concessione del terreno destinato all'impianto.
La diga inutile
Dalla parte opposta della provincia di Trapani, vicino Castelvetrano, un’altra tappa obbligata nel nostro viaggio nella Sicilia della siccità. È la diga Trinità.
Anche questa è una storia singolare. Anche questo invaso, come quelli del resto della Sicilia, è ai minimi storici, rispetto ai 18 milioni di metri cubi d’acqua che potrebbe contenere. Ma qui siamo di fronte ad un paradosso. Perché la poca acqua rimasta solo parzialmente è destinata all’agricoltura. Il resto infatti finisce in mare.
La diga, costruita 65 anni fa, non è mai stata collaudata e ha diversi problemi di sicurezza mai risolti. Ed è per questo che deve sversare l’acqua a mare, secondo una disposizione del ministero dei Trasporti e delle infrastrutture che impone di tenere l’acqua sotto una soglia di sicurezza.
«È l'emblema dell'inefficienza della macchina burocratica» dice Angelo Bonelli, leader dei Verdi, in visita in questi luoghi. A maggio e giugno due inaspettati temporali avrebbero potuto aumentare il livello della diga, ma sono scattate le procedure di sicurezza e l’acqua è stata sversata in mare, come accaduto per 45 giorni consecutivi durante la primavera.
Agricoltura a rischio
Invano gli agricoltori - costretti a cominciare la vendemmia già a metà luglio, con un mese di anticipo, per non vedere appassire le uve - hanno chiesto di aumentare la portata della diga.
La regione ha risposto con una nota spiegando che sono in corso «studi di rivalutazione sismico-idraulica della diga» per arrivare «al collaudo definitivo della diga». «Si continua ancora a perdere tempo - commenta Camillo Pugliesi, presidente di Cia Sicilia occidentale - mentre ci sono ben 5000 ettari di vigneti lasciati a secco proprio dal cattivo funzionamento della diga, con centinaia di aziende agricole con il fiato sospeso».
«Abbiamo perdite del 70 percento e non vediamo futuro per queste coltivazioni - aggiunge Tommaso Giglio, imprenditore agricolo - Se lo stato ci garantisce l’acqua noi continuiamo a coltivare queste terre, altrimenti ce lo dicano chiaramente e diamo i terreni al fotovoltaico e all’eolico. E qua diventa un deserto».
Chissà, forse, di questo passo, assisteremo ad singolare ciclo dell’acqua “made in Sicily”, con il dissalatore di Porto Empedocle, rimesso a nuovo, che filtrerà l’acqua sversata in mare dalla vicina diga Trinità. Tutta economia che gira, nel nome dell’emergenza.
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