Il capo dipartimento immigrazione del ministero dell’Interno si è dimesso a seguito di un’inchiesta sul caporalato della procura di Foggia in cui è indagata anche sua moglie
Il capo dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del ministero dell’Interno, Michele di Bari, si è dimesso a seguito di un’inchiesta anti-caporalato in cui è stata indagata la moglie. Per lei la procura di Foggia ha disposto l’obbligo di firma e di dimora.
Michele di Bari, 62 anni, è originario di Mattinata, in provincia di Foggia. È stato viceprefetto dal 2001 e poi prefetto nel 2010. Dal 2012 al 2013 è stato prefetto di Vibo Valentia, di Modena dal 2013 al 2016 e di Reggio Calabria fino al 2019. Dal 2019, quando il ministro dell’Interno era il leader della Lega Matteo Salvini, è stato nominato capo del dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Viminale, ruolo che ha abbandonato quest’oggi. La ministra Luciana Lamorgese, si legge sul sito del ministero, ha accettato le sue dimissioni.
Lo stesso leader della Lega, Matteo Salvini, ha esortato Lamorgese a riferire in parlamento sulla vicenda: «Chiediamo che la ministra riferisca immediatamente in parlamento. Al di là della vicenda giudiziaria, i dati sull'immigrazione dicono che in due anni ci sono stati più di 100mila sbarchi. L’ultima missione europea è stata assolutamente fallimentare. Lamorgese ci venga a raccontare che intenzioni ha».
E riguardo al premier Mario Draghi, Salvini attacca: «È uomo di numeri, e i numeri dicono che nel 2019 gli sbarchi furono 11mila, nel 2020 35mila, e quest'anno siamo a 63mila. C'è qualcosa che non funziona».
Anche Liberi e uniti e Fratelli d’Italia hanno chiesto alla ministra Lamorgese di riferire in aula. La Lega questa mattina aveva parlato di «disastro al ministero»; mentre Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, si era spinto a chiedere le «dimissioni o la rimozione immediata» di Lamorgese.
Nell’ambito dell’inchiesta che riguarda la moglie – indagine che vede in tutto 16 persone indagate – sono state arrestate cinque persone. Per due di loro è scattata la misura cautelare in carcere, mentre altre tre sono ai domiciliari. Per le 11 restanti, come le la moglie di di Bari, è stato disposto l’obbligo di firma e di dimora.
L'indagine, che ha interessato attività comprese tra luglio e ottobre 2020, ha portato anche a una verifica giudiziaria su oltre dieci aziende agricole riconducibili ad alcuni degli indagati.
Per i sedici le accuse, a vario titolo, sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. L’indagine, condotta da luglio a ottobre 2020, è stata condotta dai militari del Nucleo operativo e radiomobile dei carabinieri di Manfredonia e da quelli del Nucleo dell’ispettorato del lavoro di Foggia.
Gli inquirenti avrebbero scoperto un sistema di sfruttamento ai danni di decine di lavoratori migranti, reclutati per lavorare nelle campagne della Capitanata, e lasciati a vivere in precarie condizioni igienico-sanitarie nella famigerata baraccopoli di Borgo Mezzanone, che ospita circa 2000 persone.
Per dieci aziende agricole, riconducibili ad altrettanti indagati, è stato disposto un controllo. All’interno del sistema criminoso, due persone – un cittadino gambiano di 33 anni e uno senegalese di 32 anni – sarebbero state l’anello di congiunzione tra i braccianti e le aziende agricole.
Gli uomini si sarebbero occupati di raccogliere le somme di denaro che le persone migranti pagavano per ottenere lavoro e trasporto, e di sorvegliare i braccianti agricoli durante il lavoro, impartendo loro anche direttive su come comportarsi in caso di controlli dei carabinieri.
Secondo gli inquirenti, il sistema nel complesso avrebbe fruttato alle dieci aziende coinvolte un giro d’affari per 5 milioni di euro.
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