Nonostante le poche risorse pubbliche, le strutture vanno avanti con volontarie e legali che assistono le vittime anche nella denuncia: «In questura spesso non vengono credute»
Nei centri antiviolenza che accolgono le donne maltrattate, da inizio anno le richieste di aiuto telefoniche sono aumentate. Solo nei primi sei mesi del 2024 le chiamate al 1522, il numero attivo 24 ore su 24 dedicato ad accogliere le richieste di aiuto delle donne che affrontano situazioni di violenza e stalking, sono state 17.880, in aumento dell’83,5 per cento rispetto allo scorso anno.
«Ci sono sempre state le telefonate di madri e padri preoccupati, ma dopo Giulia Cecchettin c’è stata una crescita rilevante di parenti, amici e compagni di università che chiamano chiedendo informazioni e cercano di capire se quelli a cui assistono sono segnali di violenza», racconta Lucia De Cicco, operatrice volontaria della Casa di accoglienza delle donne maltrattate (Cadmi), a Milano.
Secondo le più recenti rilevazioni dell’Istat, oltre la metà delle donne maltrattate dichiara di aver subito violenze per anni prima di rivolgersi a un centro antiviolenza. Per circa metà di loro si tratta di violenza fisica, seguita da quella psicologica, che secondo le testimonianze delle operatrici raccolte da Istat le pone in uno stato di ansia e di grave soggezione. Altro dato che rimane costante è quello delle donne che subiscono violenza tra le mura domestiche, il 74,3 per cento.
«La loro consapevolezza è cresciuta. Specialmente le più giovani anticipano la violenza, mentre prima era più frequente che si rivolgessero a noi dopo lunghe relazioni violente», dice De Cicco, che fa la volontaria dal 2017. Chi come lei opera all’interno dei centri antiviolenza ha alle spalle esperienze professionali di vario tipo, di solito in ambito educativo, psicologico e giuridico, e ha svolto corsi di formazione specifici che permettono di affrontare insieme alle donne maltrattate percorsi di emancipazione dalla violenza che possono durare anni.
«Formare la polizia»
Il contatto telefonico è spesso il primo strumento per fornire sostegno alle donne che cercano aiuto. Durante la chiamata, la donna racconta la propria storia e le operatrici compiono una prima valutazione del rischio per capire se si trova in una condizione di pericolo urgente.
Poi viene la fase di accoglienza vera e propria all’interno del centro antiviolenza, dove riceve sostegno psicologico e supporto legale gratuito. «Ciò che emerge come prima cosa è il senso di giudizio e di svalutazione che si portano dietro e che spesso è precedente all’esplosione della violenza. Durante gli incontri, però, le donne esprimono sempre una forza nel testimoniare cosa è accaduto e nel riuscire a chiedere aiuto» dice Nicoletta Schiano di Cola, operatrice di Casa Fiorinda, a Napoli.
Tra il 2019 e 2021 non c’erano fondi destinati ai centri nel capoluogo campano e quelli rimasti aperti lo hanno fatto su base volontaria, ma con risorse di intervento limitate. Da quando hanno riaperto, le segnalazioni sono state subito più numerose rispetto agli anni precedenti. Nella terza città italiana per disoccupazione e povertà educativa femminile, tra le forme di assistenza fornite alle donne c’è l’orientamento lavorativo con delle formatrici. A pesare, infatti, è anche la forme di violenza meno visibile, come quella economica. La possibilità di affrancarsi economicamente diventa quindi necessaria per costruirsi un percorso di vita al di fuori degli abusi.
Alla base di ogni incontro, spiegano le operatrici, è essenziale offrire uno spazio di ascolto e fiducia alle donne, che in molti casi quando denunciano non sono credute e vengono messe in discussione. «Quando una donna mi dice di essere andata a sporgere denuncia in commissariato e le viene detto che in ciò che denuncia non si ravvede un reato, mi arrabbio. È un danno perché carabinieri e polizia devono raccogliere le dichiarazioni della persona offesa, non valutare se c’è o meno un tipo di reato nei fatti raccontati», spiega Manuela Ulivi, presidente e fondatrice di Cadmi.
Raccogliere la denuncia di una donna maltrattata in modo adeguato e approfondito può richiedere alcune ore, ma il tempo a disposizione nei commissariati spesso non basta e non sempre il personale è formato sui temi della violenza di genere. Così non è raro che le denunce cadano nel vuoto. Anche per questo motivo, le assistenti legali dei centri antiviolenza propongono alle donne che intendono sporgere denuncia di redigerle insieme approfondendo le dinamiche e la storia della violenza subita.
Oppure, se la denuncia è già stata presentata, il suggerimento è quello di aggiungere una memoria integrativa successiva per descrivere nel dettaglio i fatti. Il fenomeno dell’under-reporting, ovvero della mancata denuncia da parte delle donne maltrattate, tuttavia resta massiccio: i tre quarti di chi si rivolge al 1522 non denunciano la violenza subita alle autorità competenti. Temono la reazione dell’uomo violento e i lunghi tempi processuali. «Il percorso della denuncia è pieno di ostacoli - dice Ulivi - se la donna non viene considerata in pericolo anche di vita, quando ha denunciato, la misura cautelare non viene emessa, con il rischio che rimanga in una situazione di maggiore di pericolo».
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