Com’è un mafioso? Finalmente ne conosco uno di persona: arriva in silenzio, serio, preceduto da due agenti e seguito da altri due. Mannoia mi chiede conferma del mio grado, “ispettore”, e da quel momento si rivolgerà sempre a me con quello, in presenza di altre persone, sempre e soltanto dandomi un lei, ovviamente ricambiato.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.
Anche per questo motivo l’agitazione che percepivo in ufficio, a settembre del 1989, non mi aveva turbato affatto. All’inizio del mese mi avevano mandato a Milano per una settimana, per un servizio da svolgere in collaborazione con il Centro Criminalpol Lombardia: si aspettava un carico di armi, o forse di droga, e passammo qualche giorno e qualche sera appostati al casello dell’autostrada, in vana attesa di una dritta che non arrivò.
Tornammo a Roma intorno al quindici, in tempo per notare una crescente agitazione, fino a quando una sera, verso le otto, Antonio Manganelli ci chiamò a raccolta: un gruppetto della Quarta Sezione, la mia, con Francesco Gratteri, e alcuni dei suoi investigatori della Terza. Prima di allora con Antonio Manganelli non avevo avuto quasi mai motivo di incontro o di conversazione.
Del resto lui si occupava di indagini serie, mentre io ero impegnato nel pronto intervento e spesso fuori Roma, ma i rapporti erano sempre stati eccellenti: era davvero un “signore”; non sono stato l’unico a dirlo e a scriverlo, ma ci tengo a ricordarlo anche qui, come ci ho tenuto a scriverlo, a nome di tutti, in occasione del suo funerale.
Manganelli fu breve e conciso: si era pentito Francesco Marino Mannoia, un uomo d’onore palermitano della fazione dei Corleonesi, il gruppo uscito vincitore dall’ultima guerra di mafia; era una novità di rilievo, dal momento che prima di allora le poche collaborazioni e i pentimenti erano arrivati solo dal lato dei cosiddetti perdenti. Non era ancora un nome notissimo, neppure tra gli addetti ai lavori, così mi andai a consultare il fascicolo nell’archivio della Direzione; palermitano del rione della Guadagna, inserito nella famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù.
Un curriculum criminale di tutto rispetto, ma non eccezionale: reati contro il patrimonio, associazione a delinquere, associazione mafiosa, un’evasione dal carcere mandamentale di Castelbuono, nel 1983, poi la latitanza e l’ultimo arresto da parte della Squadra Mobile di Palermo, nel 1985: nascosto nel doppiofondo di un armadio. Era sposato con la figlia di Pietro Vernengo, Rosa, ma risultava essere stato arrestato a casa di un’altra donna, con la quale aveva una relazione e che gli aveva dato una figlia. Nel fascicolo c’era anche una foto sbiadita, un ritaglio di giornale, che lo ritraeva all’uscita della Questura, prima di essere trasferito in carcere.
Lo avremmo dovuto prelevare dal carcere di Teramo, portare a Roma, prenderci cura della compagna e della figlia, raccogliere le dichiarazioni che avrebbe reso, almeno inizialmente, al solo giudice Giovanni Falcone, cercare i riscontri ai suoi racconti con un gruppo di investigatori della Squadra Mobile di Palermo, riferirne l’esito all’Autorità giudiziaria, e arrestare eventuali latitanti, se le indicazioni che ci stava per fornire lo avessero consentito. Il tutto con un dispiego il più possibile limitato di personale, confidando più nella riservatezza che nell’ostentazione di auto blindate, di giubbotti antiproiettile e di M12.
Manganelli distribuì gli incarichi: Nicola, un collega già in forza al Centro Interprovinciale Criminalpol di Roma, arrivato con me nel 1987, avrebbe curato i rapporti con l’Autorità giudiziaria, individuando gli episodi delittuosi, raccogliendo i riscontri alle dichiarazioni e procedendo alle identificazioni dei mafiosi chiamati in causa, mentre Claudio e Marco avrebbero gestito la logistica della famiglia.
Io, probabilmente scelto per la mia passata esperienza alle Volanti, mi sarei dovuto occupare della scorta vera e propria, andando a prendere il “pentito” nei giorni di interrogatorio e riportandolo in carcere la sera; le persone nominate erano i referenti per ciascuna area, ma tutto il Nucleo, al bisogno, avrebbe contribuito. Alla fine del discorso, Manganelli fece la faccia ancor più scura e si raccomandò: «Ragazzi, – disse – stavolta è una cosa seria, è un Corleonese… occhi aperti, perché stavolta si muore».
Tornai a casa senza provare una particolare apprensione: mi ero fatto l’idea che al Nucleo tendessero sempre a esagerare tutto, e informai mia moglie che per un po’ di tempo sarei rimasto a Roma, ma uscendo al mattino presto e rientrando la sera tardi; sembrò quasi sollevata: in giro per casa, almeno per un po’, non ci sarebbero state valigie.
Casal del Marmo
Mannoia era detenuto a Teramo, ma a prenderlo non andai io, e credo di ricordare che venne tutto anticipato, rispetto a quanto era stato progettato inizialmente: il servizio, per me, sarebbe iniziato domenica 8 ottobre 1989, a Casal del Marmo, e quando me lo dissero la cosa mi lasciò abbastanza perplesso: per quanto ne sapevo io Casal del Marmo era il carcere minorile di Roma e non avevo neppure una precisa idea di dove si trovasse.
Il giorno prima, sabato 7, avrei dovuto essere libero, ma Francesco Gratteri mi disse di presentarmi in quella struttura, di prendere contatti con il personale degli Agenti di Custodia e di concordare i dettagli per l’indomani, per la presa e la riconsegna del detenuto. Neanche a farlo apposta, quel sabato mattina in ufficio non trovai neppure un’autovettura disponibile, erano tutte impegnate per altri servizi, ma io sapevo bene che a De Gennaro era meglio non rappresentare problemi, o, se proprio ti ci trovavi costretto, glieli dovevi sottoporre insieme ad almeno due soluzioni ragionevoli e immediatamente praticabili.
Gli altri funzionari erano perfettamente allineati sulla stessa posizione, e né Antonio Manganelli né Alessandro Pansa mi avrebbero risolto la faccenda. Colpa mia, avrei dovuto far mettere da parte una macchina già dalla sera prima… così a Casal del Marmo, all’indirizzo che mi avevano dato, ci andai con la mia Dyane 6.
Era il 1989, non c’erano navigatori né smartphone; Google non esisteva, ma mica ci si perdeva: c’era il “Tuttocittà”, un fascicoletto allegato all’elenco del telefono che la Sip passava generosamente agli abbonati, e poi io avevo preso l’abitudine, dal tempo delle Volanti, di girare sempre, in macchina, con uno stradario che si chiamava AZ, pubblicato ogni anno, con la toponomastica di Roma e di tutte le periferie sempre aggiornata e precisa.
Casal del Marmo è una borgata romana, dalle parti di Torrevecchia, non distante dall’ospedale San Filippo Neri, e lì, in una zona di campagna, trovai non il carcere minorile, come avevo pensato, ma una struttura del Ministero di Grazia e Giustizia, dove si tenevano i corsi di guida per gli autisti civili del Ministero e per gli agenti della Penitenziaria.
La caserma era stata sgomberata in fretta, i corsi sospesi o rinviati, e la struttura era stata presa integralmente in carico, compreso il servizio di mensa e di vigilanza, da un gruppo di agenti selezionatissimi comandati dal Maggiore Ragosa e ribattezzata, sulla carta, Sezione Distaccata di Regina Coeli, […].
Il percorso da seguire tra Casal del Marmo e il mio ufficio, invece, mi preoccupava: i punti di partenza e di arrivo erano necessariamente obbligati, e i più esposti a eventuali attacchi; e se il tragitto in generale mi consentiva due o tre alternative e poco o nulla si poteva fare per accrescere la vigilanza intorno all’ufficio che si trovava in viale dell’Arte, nel cuore dell’Eur, vicino alla caserma c’era da percorrere invece un bel tratto completamente scoperto, dove solo saltuariamente transitavano i veicoli della Penitenziaria.
Lo feci presente, al mio ritorno dal sopralluogo, e Francesco Gratteri mi disse che avrebbero valutato se fare effettuare anche una saltuaria vigilanza dalle Volanti della Polizia. A Palermo c’è un detto comune che racchiude molto della filosofia siciliana, un detto che io non conoscevo ma che negli anni ho fatto mio perché si adatta molto bene alle attività di Polizia quando ci si trova a dover fare una cosa con quello che si ha a disposizione: “Chista è a zita…”, detto con tono definitivo.
L’espressione completa è “Chista è a zita, cu a voli sa marita”, e cioè “la fidanzata è così, chi la vuole se la sposi”, ma la seconda parte nell’uso comune viene sempre omessa, e la morale è: se ti va bene è così, perché alternative non ce ne sono. E io, della zita, non me ne innamorai, ma me la feci piacere. Il primo vero servizio di scorta iniziò, non senza qualche intoppo, alle 7.30 di domenica 8 ottobre.
Nell’ottica della segretezza, qualcuno aveva deciso che si dovesse utilizzare un mezzo che la burocrazia del mio ufficio definiva speciale: praticamente un normale mezzo di locomozione a motore la cui specialità consisteva, principalmente se non esclusivamente, nella necessità di elaborate procedure di richiesta e appositi conclavi di autorizzazione.
Nello specifico, si trattava di un furgone Volkswagen del tipo Westfalia, attrezzato a piccolo camper, con la finestratura blindata e inamovibile. Credo che la Polizia lo avesse acquistato quando si indagava sul mostro di Firenze, in vista di appostamenti da fare in campagna.
Nella parte posteriore si trovavano due strapuntini che obbligavano i passeggeri a sedere dando la schiena all’esterno e pesanti tendine di stoffa verde scuro impedivano qualsiasi visuale: in sostanza sembrava di viaggiare chiusi in una cassaforte. Il motore, per quanto generoso, era del tutto inadeguato rispetto al peso del veicolo e lo sforzo per muoverlo produceva velocità risibili, ma quantitativi consistenti di fumi.
Lo guidava Franco, che era stato per qualche anno autista di De Gennaro, ma che ora era in Sezione con me, e per il primo viaggio mi erano stati affiancati, ad abundantiam, due “anziani” dell’ufficio, Totò e Nicola; ci seguiva, a distanza, un’Alfa 33 di copertura senza contrassegni.
Dall’ufficio chiamai il numero della caserma che mi avevano dato il giorno prima, e fornii tipo e targa dei veicoli, anche se, a pensarci bene, la targa del Westfalia era del tutto superflua: penso proprio fosse l’unico in circolazione, così combinato, sulle strade del mondo. Quella mattina conobbi Francesco Marino Mannoia; io avevo esperienza solo di balordi di borgata romana, che si somigliano un po’ tutti: parlata strascicata, sfottente, quasi desiderosi di aderire il più possibile all’immagine malavitosa che li ispira.
Di mafiosi o per meglio dire di uomini d’onore, invece, nessuna esperienza diretta. Com’è un mafioso? Finalmente ne conosco uno di persona: arriva in silenzio, serio, preceduto da due agenti e seguito da altri due: il Maggiore Ragosa fa prendere in carico l’autorizzazione permanente al prelevamento, fa annotare l’orario sul registro e procede alle presentazioni.
Mannoia mi chiede conferma del mio grado, “ispettore”, e da quel momento si rivolgerà sempre a me con quello, in presenza di altre persone, sempre e soltanto dandomi un lei, ovviamente ricambiato. Mi scruta, quasi a pesarmi, poi senza parere, ma con attenzione, osserva i colleghi che sono entrati con me: mi chiede se saremo sempre gli stessi. Gli do piena assicurazione per quanto riguarda la mia persona, e una generica conferma per gli altri che di volta in volta mi accompagneranno.
Mi chiede anche se fra noi ci siano dei siciliani. Gli dico che nel nostro ufficio ce ne sta qualcuno, ma nessuno che sia impegnato nei servizi che lo riguardano direttamente: sembra soddisfatto, e me ne domando per un attimo la ragione. Mi guardo bene dal porgli domande, dal familiarizzare: col tempo si vedrà se è il caso. Il volto è scuro, pensieroso, e mi sembra giusto evitare chiacchiere: ho l’incarico di scortarlo e di tutelarne l’incolumità, a quello mi devo attenere.
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