Mi siedo e accendo una Camel: in ufficio, si sa, fumano quasi tutti, fumiamo quasi tutti: i tempi dei divieti sono di là da venire. Chiude il telefono e mi porge il foglietto: sopra c’è un nome e un cognome. – Vedi se riesci a identificarlo, è un calabrese, dovrebbe essere latitante per omicidio, cosa di diversi anni fa, al nord.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.
Squilla il telefono, è Gratteri: – Maurizio, vieni un minuto? Quando chiama il capo ma non hai fascicoli importanti in trattazione ti incammini e intanto ti domandi cosa bolle in pentola.
Forse vogliono riprendere le intercettazioni per catturare i latitanti del sequestro di Esteranne Ricca? O non sarà qualcosa che riguarda Palermo? – Eccomi, doc. È al telefono, mi fa cenno di sedermi, sta scrivendo un appunto su un foglietto. Mi siedo e accendo una Camel: in ufficio, si sa, fumano quasi tutti, fumiamo quasi tutti: i tempi dei divieti sono di là da venire.
Chiude il telefono e mi porge il foglietto: sopra c’è un nome e un cognome. – Vedi se riesci a identificarlo, è un calabrese, dovrebbe essere latitante per omicidio, cosa di diversi anni fa, al nord. E fai prendere il cartellino fotosegnaletico alla Scientifica – aggiunge, dando per scontato che io ci riesca. Non dico niente, prendo il foglietto, trascrivo il nome e compilo la richiesta per il casellario di identità della scientifica, lasciando in bianco la data di nascita.
Chiamo Franco, sempre lui, e gli dico di prendere una macchina e iniziare ad andare in Direzione, quando sarà lì mi chiamerà e conto di dargli le generalità complete. Vado da Gioacchino. Gioacchino è una sicurezza: lo trovi sempre alle prese con i terminali a fare accertamenti negli archivi: ha le password di accesso per tutti gli schedari e gli archivi informatici ai quali la polizia è abilitata ad accedere, e se ne sa servire come nessun altro.
I terminali non sono veloci come nei telefilm delle serie americane, e le risposte non sono esattamente immediate, ma con i dati che gli metto a disposizione in cinque minuti ho la risposta: la data di nascita, gli estremi della condanna a venticinque anni per l’omicidio a scopo di rapina di un ragioniere, a Torino.
Chiamo Franco che nel frattempo è arrivato in archivio e gli dico di prendere anche il fascicolo, oltre alla foto. Tempo mezz’ora e mi riaffaccio alla porta di Gratteri. – Ecco, doc, – gli porgo le carte e la foto – dovrebbe essere questo.
Partenza per la Germania
Guarda la foto con attenzione, e con un certo disappunto. – Una più recente non c’era, eh? – sacramenta. Alzo le spalle: la foto ha più di venti anni, ma non mi meraviglio, se lui si è dato latitante prima della condanna, difficile che ce ne siano di più recenti. – Tu te la cavi col tedesco? – ride.
Mi viene in mente quando si è informato sulle mie capacità di dattilografo, ma stavolta posso rispondere a cuor leggero senza dover aggiustare la realtà. – Zero, doc. Con l’inglese posso sopravvivere, ma di tedesco sono digiuno… – categorico e senza esitazioni. Stavolta non ci sono santi, non sarà cosa che mi riguarda – mi rassicuro. – Vabbe’ non fa niente, tanto vai con Filippo Miceli, il nostro Ufficiale di Collegamento a Wiesbaden… Ecco, appunto, mi pareva! – Scusi, ma andare dove? E quando? – obiezione inutile, lo so da me, ma è parte del copione, è la mia battuta e la recito comunque. – Ce lo hanno segnalato in Germania, – indica la foto – in un posto che si chiama Duisburg, e va a mangiare sempre in un ristorante vicino alla stazione dei treni, gestito da italiani; è basso e ha problemi di vista.
Vai, prendete contatti con i colleghi tedeschi, vi fate due servizi di appostamento, lo arrestate e te ne torni. Poi per l’estradizione se la vede l’Interpol. – Guarda il calendario, pensoso: Pasqua è pericolosamente vicina – Se lo trovi, bene, altrimenti per Pasqua ti faccio rientrare! – paterno e comprensivo.
È il 19 marzo del 1991 e l’ufficio mette in moto la pratica per mandarmi in missione: appunto per il Capo della Polizia… decreto… autorizzazione di spesa… richiesta di anticipo in valuta locale; la burocrazia ha comunque i suoi tempi, a volte anche quando ci sono di mezzo i latitanti, e solo alle 13.35 del giorno 26 sto rullando sulla pista di Fiumicino, con destinazione Francoforte.
Comodamente seduto in coda, zona fumatori, su un aereo della Lufthansa nuovo di pacca e coi sedili in pelle nera profumata che mi trasmettono solide, teutoniche certezze, mi gusto una Camel mentre mi sento scorrere addosso, ancora una volta, il brivido del mio amore per la polizia.
Essere poliziotto è come avere un rapporto con una donna affascinante e capace di offrirti seduzioni sempre nuove: è la mia prima missione all’estero, sono gratificato per la fiducia che il mio ufficio ripone in me, vivo la sensazione dell’attesa, la speranza di riuscire a individuare il latitante, il pensiero delle nuove persone che incroceranno la loro vita con la mia.
Mille volte le ho provate, quelle sensazioni, ogni volta nuove e diverse, alla partenza di ogni missione, eppure fondamentalmente uguali, come un amore che ogni giorno si riscopre, ma in fondo è sempre lo stesso. [...]. Quando vai in missione fuori, all’estero, ti vengono a prendere i colleghi del posto, che ovviamente non conosci, e io mi sono sempre divertito a cercare di individuarli tra le persone in attesa, ma stavolta non sarà così.
Filippo Miceli, il nostro Ufficiale di collegamento presso il Bundeskriminalamt, mi ha dato per telefono sommarie istruzioni: all’interno dell’aeroporto devo seguire le indicazioni per la stazione ferroviaria, che si raggiunge scendendo diversi piani, e lui mi aspetterà lì, al binario del treno diretto a Dusseldorf.
I biglietti li ha già fatti lui, che viene da Wiesbaden, dove ha sede il Bka, e si raccomanda di sbrigarmi, perché non c’è molto tempo tra l’arrivo del mio aereo e la partenza del treno. Mi dico che ce la posso fare: è martedì e conto di rientrare venerdì o sabato, e ho solo bagaglio a mano. In effetti ce la faccio: i tedeschi sono precisi per definizione, e nella segnaletica, in genere, accompagnano un simbolo alla scritta: quello del treno è inequivocabile.
Ci incontriamo al binario, dieci minuti e siamo comodamente seduti su un vagone confortevole e silenzioso.
Duisburg
Duisburg, oggi, la conoscono tutti quelli che si occupano di ’ndrangheta o di criminalità organizzata, e il nome suona familiare anche a gran parte di coloro che hanno seguito le cronache di nera dell’agosto del 2007, ma nell’aprile del 1991 io non l’avevo mai neppure sentita nominare.
Me ne parla Filippo Miceli, mentre attraversiamo velocemente una Germania grigia, noiosa, piovosa e operosa: siamo nel Land Nordrhein-Westfalen, nel cuore della Ruhr, ci vivono molti italiani, immigrati e figli di immigrati che mantengono solidi contatti con l’Italia, e molti sono anche i legami con la criminalità organizzata italiana; lui se n’è occupato anche poco tempo prima, nelle indagini che hanno portato all’arresto di due dei killer del giudice Rosario Livatino e, aggiunge, proprio dalla zona di Duisburg erano partite telefonate rilevanti per i sequestri Casella e Celadon.
Alla stazione ci viene a prendere il responsabile della Fahndung di Duisburg, l’Oberkommissar della polizia criminale Majewsky, che segue personalmente il caso: sulla cinquantina, occhialuto, di buona stazza, parla un inglese persino peggiore del mio, ma Filippo Miceli, da anni in Germania, padroneggia il tedesco con disinvoltura e al bisogno ci fa da interprete.
Majewsky già prima del nostro arrivo si è dato da fare: ha individuato il ristorante “Da Bruno” e ha fatto fare accertamenti sugli attuali proprietari, su quelli precedenti e sulle persone che ufficialmente risultano lavorarci. Ci spiega tutto durante una cena di benvenuto che ci offre in un altro ristorante gestito da un italiano che lui conosce, e sulla cui affidabilità garantisce.
L’indomani mattina si tiene una riunione nel Polizeipraesidium: c’è anche un esperto di criminalità organizzata italiana, che è arrivato apposta dal Bka per seguire il caso, ma che non sembra godere di grande popolarità tra i suoi colleghi del posto. Non mi meraviglia: tutto il mondo è paese, come si suol dire, e dovunque nel mondo i poliziotti che operano sul territorio guardano con sufficienza e diffidenza a tutti i loro colleghi degli uffici “centrali” o comunque a loro sovraordinati.
Succedeva la stessa cosa a me, quando lavoravo nel Commissariato di San Basilio e guardavo di malocchio i questurini della Squadra Mobile che venivano a ficcare il naso nel “mio” quartiere, ed è la stessa aria che respiro, a ruoli invertiti, ogni volta che mi mandano in missione in qualche Questura italiana, almeno al primo impatto.
Il collega tedesco del Bka si trattiene solo un giorno; la sera ci porta in una discoteca che si sviluppa su diversi piani sottoterra, che lui dice essere frequentata da italiani e sul punto è categorico: se il nostro latitante è da quelle parti, deve per forza frequentare quella discoteca.
Ci passiamo un paio d’ore, ma siamo una compagnia davvero male assortita, puzziamo di sbirro da lontano e il solo risultato che otteniamo è il veloce allontanamento di tutti gli spacciatori e di numerosi dei loro clienti.
L’indomani è il Giovedì santo: passiamo la mattinata all’Ufficio stranieri, che in Germania è gestito dai comuni: i rapporti con la Polizei sono buoni, e ci mettono a disposizione i microfilm con le informazioni sui residenti; la ricerca non è facile e non produce risultati apprezzabili. Offro il pranzo a Majewsky in una steak house argentina, e nel pomeriggio saluto Filippo Miceli, che rientra a casa a Wiesbaden – lui sì – per Pasqua.
Non me lo aspettavo, a dirla tutta… e adesso come faccio? Chiamo Roma e mi informo sulle previsioni di rientro per me. Non prima di sabato, mi fanno sapere dalla segreteria, perché Gratteri dribbla con disinvoltura i miei tentativi di contatto diretto.
La sera Majewsky mi porta nella sede dell’Ipa di Duisburg, un’associazione internazionale di poliziotti, dove mi regalano adesivi e gagliardetti, tra una birra e l’altra. L’età media dei presenti è abbastanza elevata, almeno per i miei standard, pochissime le donne, qualcuno parlicchia inglese e tutti conoscono le inevitabili dieci parole di italiano, che comprendono naturalmente mafia, spaghetti, ’o sole mio e la prima strofa di Volare.
Apprendo qualcosa sull’organizzazione della polizia tedesca: la divisione tra quelli che stanno per strada, in divisa, e quelli che fanno le indagini, in borghese; mi colpisce il fatto che tutte le auto che vengono utilizzate in ciascun Länder sono fornite dalle case automobilistiche stabilite nello stesso territorio: un sistema pratico, come quasi tutto ciò che è tedesco, che ottimizza i risultati e riduce le spese. [...].
Il venerdì Majewsky organizza i servizi di avvistamento nei pressi del ristorante “Da Bruno”, chiedo se posso contribuire ma nicchia: all’estero difficilmente ti fanno partecipare direttamente a qualcosa che ti può esporre a rischio, anche se sei un poliziotto in servizio e in missione: è una responsabilità che non tutti si assumono, e il mio Oberkommissar ci va coi piedi di piombo. Pazienza.
Al ristorante “Da Bruno”
A Duisburg attrazioni turistiche non ce ne sono poi molte, ma il pomeriggio mi portano in una cittadina non troppo distante, Xanten, dove sulla base di pochi sassi sbrindellati i tedeschi sono riusciti a ricostruire un intero accampamento romano: è meta di visite domenicali, una via di mezzo tra gastronomia e cultura. Lodevole l’intenzione e soddisfacente il risultato.
La sera è d’obbligo la cena in un ristorante tipico, in un villaggio di minatori tipico, all’ingresso di una tipica area mineraria che mi appare dismessa. Ovviamente anche il menù è tipico, ricalca l’alimentazione dei minatori: abbondano patate, rape e cipolle.
L’indomani è la vigilia di Pasqua: Majewsky mi invita formalmente a trascorrerla con la sua famiglia, ma mi fa capire che la moglie lo sta pressando per gli acquisti dell’ultim’ora. Mi schermisco, mi invento degli improbabili parenti a Dusseldorf che andrei a trovare, ma l’Oberkommissar è sbirro almeno quanto me e non se la beve: ci accordiamo nel senso che lui dedicherà la vigilia allo shopping e mi verrà a prendere in albergo in serata.
Libero da impegni, mi incammino verso la stazione ferroviaria: sto andando a mangiare “Da Bruno”, voglio guardare con i miei occhi e rendermi conto dell’ambiente: dopo tutto mica me l’hanno proibito, no? Il ristorante si presenta bene, curato, pulito, anche elegante; non c’è molta gente, i camerieri tra loro parlano in italiano. Ho mandato a memoria l’elenco ufficiale dei dipendenti che mi ha dato Majewsky, e mentalmente cerco di individuarli. Al tavolo mi serve un abruzzese che non si pone neanche il problema, mi pesa con un’occhiata e si rivolge a me in italiano.
Assumo la mia espressione più beata e soddisfatta e mi esibisco in una lunga serie di luoghi comuni. All’estero, in qualsiasi parte del mondo, ho sempre accuratamente evitato la cucina italiana, non ho mai chiesto un espresso e mi sono rigorosamente attenuto a usi, costumi e gusti locali; qui mi costringo a fare l’esatto contrario.
Esordisco senza vergogna con espressioni di soddisfazione per aver finalmente trovato un vero ristorante italiano, mi lancio in un’invettiva contro la barbarie delle ricette tedesche, scaglio anatemi contro il Kaffee lungo e bollente che si usa in Germania (che invece apprezzo molto) e concludo invocando un piatto di spaghetti al ragù. Mi accontentano, purtroppo: spaghetti sottili, stracotti, affogati in un brodetto allungato, chiaramente derivato da un prodotto inscatolato.
Al termine del pasto, che mi costa 45 marchi -– anche caro, considerando l’ammontare della mia diaria di missione -– il cameriere mi interroga a puntino. Improvviso: sono a Duisburg ospite da un lontano cugino friulano, ma in realtà devo andare a Dusseldorf, per farmi operare agli occhi ed eliminare la miopia che mi affligge, obbligandomi alle lenti a contatto.
Ci può stare: ho letto che a Dusseldorf c’è un centro specializzato per le operazioni con il laser, e siccome il “mio” latitante pare ci veda poco, m’è venuta l’ispirazione di buttare lì il discorso. Il cameriere commenta: anche lui conosce “uno” che ci vede male ma non vuol portare gli occhiali, con ovvie conseguenze. Starà parlando del latitante? Non azzardo domande, resto quanto più a lungo posso, guardandomi bene intorno. Quando esco individuo i due colleghi tedeschi che stanno facendo osservazione: la strada non è di gran traffico e danno un po’ all’occhio, almeno a me che so della loro presenza, ma pazienza.
Pasqua e Pasquetta dopotutto le trascorro in famiglia, come aveva promesso Gratteri, non nella mia, ma in quella del buon Majewsky. Conosco la moglie, la figlia tredicenne e gli anziani genitori: è una full immersion nel tedesco, e riesco persino a capire, faticosamente e a grandi linee, i temi di qualche conversazione.
Il pomeriggio di Pasquetta mi portano sul battello della Polizia fluviale a fare un giro di pattuglia alla confluenza tra il Reno e la Ruhr.
Il comandante del battello parla il miglior inglese che ho ascoltato finora e mi spiega con pazienza e competenza le problematiche del traffico delle chiatte e i compiti della polizia. La prova più ardua mi aspetta a sera: torniamo nel locale tipico dei minatori e insisto per mangiare il piatto più caratteristico che hanno. Ridono, si consultano tra loro, chiamano il titolare e confabulano; avverto una sottile inquietudine, ma spavaldamente non demordo. Il piatto che mi hanno ordinato lo sento arrivare da lontano, per l’odore… Sono cipolle, solo grosse cipolle tagliate a fette non troppo sottili e fritte – immagino – nello strutto. Beh, penso, ce la posso fare… ma ho fatto i conti senza l’oste, nel senso più letterale del termine, perché torna il proprietario e mi spiega con mimica poco teutonica che le cipolle non vanno mangiate così, ma preventivamente cosparse con il contenuto del barattolo che ha in mano.
Un condimento? Vabbe’… Magari piccante? Non c’è problema: in Calabria ho mangiato lo “stocco” crudo con i peperoncini verdi, figurati se mi lascio impressionare, foss’anche “cren”. Niente di più sbagliato: nel barattolo c’è una sorta di marmellata dolcissima, che una volta spalmata sulle cipolle accende un insanabile conflitto di sapori.
Mi sforzo e mangio la prima fetta, tra le risate dei presenti… azzardo un gut di circostanza mentre tengo saldamente in mano il boccale della birra, unico e prezioso alleato nell’occasione. Ripenso con nostalgia perfino agli immangiabili spaghetti minestrati al ragù che m’hanno propinato al ristorante “Da Bruno”. Alla terza fetta i colleghi si dichiarano soddisfatti, fan portare via il piatto “caratteristico” e mi spiegano, ridendo, che neanche loro riescono a mangiarlo…
L’indomani torna Filippo Miceli ma i servizi di avvistamento, che proseguono, non portano risultati; io vado qualche altra volta a mangiare al ristorante, ma del latitante non c’è traccia. Majewsky nel frattempo ha proseguito nelle indagini, e ha scoperto che agli stessi proprietari fanno capo altri locali nelle vicine città di Essen, Bochum e Kleve. Allora, con lui, ci facciamo il giro dai colleghi dei Polizeipraesidium di quelle città, spieghiamo la faccenda, lasciamo copia della foto segnaletica del ricercato.
Il dieci aprile anche il mio ufficio si convince che tenermi ancora lì serve a poco e mi dicono di rientrare: dovevano essere quattro giorni e sono diventati quindici, senza essere venuti a capo di niente! Sull’aereo ripenso alla missione, all’estrema gentilezza e disponibilità mostrata dai colleghi tedeschi: ho con me nomi, indirizzi, biglietti da visita, ma so bene che non li rivedrò mai più.
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