- Dopo 23 anni di latitanza e l’evasione da un carcere uruguaiano, tutto era pronto per riportare il boss della ‘ndrangheta in Italia, dove deve scontare trent’anni di carcere.
- Rocco Morabito vanta rapporti con pericolose organizzazioni di narcos in tutta l’America Latina, dai brasiliani del Primeiro Comando da Capital ai colombiani, gli investigatori hanno intuito la sua firma dietro molti dei più ingenti carichi di cocaina mai approdati in Europa.
- Dopo lo stop del Brasile si corre contro il tempo per ottenere l’estradizione.
È stata una questione di ore, giocata fino allo spasimo sui cinque fusi che separano San Paolo del Brasile da Roma: la giustizia italiana non era mai stata così vicina a ottenere l’estradizione di Rocco Morabito, boss della ‘ndrangheta, uno dei più potenti broker della coca del pianeta, secondo latitante più ricercato d’Italia dopo Matteo Messina Denaro. «Con il via libera delle autorità brasiliane avevamo mandato il piano di volo per la settimana tra il 27 giugno e il 2 luglio. Un volo di stato con la scorta già designata», dice una fonte investigativa con accesso diretto a tutti gli snodi della vicenda. «Poi, questo piano di volo è stato respinto perché è saltato fuori dal cilindro un procedimento a carico di Morabito presso la procura di San Paolo. Adesso stiamo richiedendo che venga data priorità all’estradizione verso l’Italia. Vediamo cosa succede».
L’autorizzazione era arrivata mercoledì 22 giugno; il Trattato di estradizione tra Italia e Brasile prevede un termine di venti giorni per completare la procedura: questo significa che l’Italia ha tempo fino a lunedì 11 luglio per riportare indietro Rocco Morabito. Scaduto il termine bisognerà ricominciare tutto da capo, con il rischio di un processo in Brasile dilatato per anni o di un nuovo trucco di Morabito.
Il procedimento «tirato fuori dal cilindro» alla procura di San Paolo, infatti, è solo l’ultima mossa di una partita che va avanti almeno dal 1994 e si gioca sul tavolo di due continenti e cinque nazioni, con un mazzo truccato fatto di aerei presi all’ultimo momento, evasioni da penitenziari latinoamericani, passaporti falsi e soprattutto fiumi di denaro e cocaina tra il sudamerica e l’Europa.
La storia di Rocco Morabito però inizia ancora prima, in uno dei paesi più sfortunati d’Italia: Africo Nuovo, che si stende sulla costa jonica della provincia di Reggio Calabria al chilometro 74 della Statale 106 come un mucchio di costruzioni gettate alla rinfusa da qualche dio capriccioso.
Gli esiliati di Africo
Il guidatore che passa per caso da Africo Nuovo si accorge immediatamente che la topografia è tutta sbagliata, anche senza conoscerne la storia: il paese non ha un vero centro, la geometria delle strade si dirama in direzioni impreviste tra le colline e il mare, tortuosa come le parentele tra gli abitanti, con case dagli ultimi piani incompleti, serre a vetri e statue di Padre Pio che spuntano all’improvviso.
Il punto è che Africo Nuovo è sorto dal nulla dopo una catastrofe: l’Africo originale, che sorgeva in Aspromonte, era un borgo di pastori raso al suolo da una pioggia incessante caduta tra il 14 e il 18 ottobre 1951.
Alcuni abitanti, come il mio trisnonno, erano già migrati verso villaggi vicini a caccia di condizioni migliori. Gli altri, i superstiti del cataclisma, sbattuti per anni come profughi tra vari paesi della zona, sono stati ricollocati qui dal 1958 senza un vero piano urbanistico e senza un’idea di sviluppo per una popolazione di pastori catapultata improvvisamente sulla costa.
Rocco Morabito nasce nel 1966, in un Africo dove il ribellismo si è già trasformato in criminalità organizzata. Vanta quarti di nobiltà ‘ndranghetista perché è parente di Giuseppe Morabito detto «il tiradritto», boss che negli anni Settanta e Ottanta porterà il clan Morabito-Palamara-Bruzzaniti ai vertici della ‘ndrangheta estorcendo enormi quantità di denaro con i sequestri di persona. Ma c’è un altro business che caratterizza le ‘ndrine di Africo in questo periodo: l’infiltrazione nel sistema dell’università di Messina, dove i clan controllano mense studentesche e alloggi universitari.
A ventidue anni Rocco Morabito – detto «‘U Tamunga», dalla storpiatura del fuoristrada modello DKW Munga che guidava per i sentieri dell’Aspromonte – si guadagna la sua prima denuncia: insieme a due studenti mediorientali si presenta da un professore di Veterinaria poggiando una pistola sul banco.
I suoi complici sono Hassan e Waleed Issa Khamayis, due militanti del Fronte di Liberazione Palestinese che trafficano in droga con le ‘ndrine della Jonica. Brutalità, abilità nelle trattative e una vocazione internazionale: i tratti salienti del Tamunga sono già tutti lì, e sono pronti a sbocciare a Milano, capitale italiana del consumo di coca.
Da Milano al sudamerica
Nel 1994, a Milano, gli inquirenti seguono da tempo Domenico Mollica, un pregiudicato di Africo legato al «Tiradritto» che in un’attività di sorveglianza viene fotografato in compagnia di altri cinque uomini. Due di loro risultano cittadini colombiani esponenti del Cartello di Cali; il quinto è Rocco Morabito, che a 28 anni sta gestendo la spedizione di 693 chili di coca dalla Colombia attraverso il Brasile fino all’Italia.
Le operazioni «Gelo» e «Fortaleza» svelano come il mercato ortofrutticolo di Milano sia diventato uno snodo del traffico di coca di portata europea; finiscono in carcere in 95, tra cui una schiera di affiliati al clan Palamara-Morabito-Bruzzaniti. L’unico che manca all’appello è Rocco Morabito, svanito dal suo appartamento in provincia di Pavia.
Dopo la condanna a trent’anni di carcere lo cercano in Colombia. Lo cercano in Argentina, dove i Morabito vantano antiche parentele. Si intuisce la sua mano dietro immenso carichi di coca arrivati in Italia e in altre nazioni europee dalla Costa Rica, dalla Colombia e dal Brasile, a volte via Senegal. Ma per 23 anni tutto tace.
Poi, nella notte del 2 settembre 2017 le forze dell’ordine uruguaiane in coordinamento con la Dda di Reggio Calabria fanno irruzione in un hotel nel centro di Montevideo e arrestano un uomo d’affari brasiliano di nome Francisco Antonio Capelletto Souza.
Capelletto Souza risiede a pochi chilometri da Montevideo, a Punta del Este, il buen retiro dei ricchi della capitale, ed è sposato a una cittadina angolana naturalizzata portoghese di nome Paula Maria de Oliveira Correia, che per qualche ragione vanta entrature con i diplomatici di vari paesi latinoamericani. Ma la pistola con cui viene trovato l’arrestato e le decine di schede sim di vari paesi servono solo a confermare quello che le impronte digitali hanno già dimostrato: Capelletto Souza è Rocco Morabito.
A questo punto sarebbe solo questione di coordinamento tra Italia e Uruguay, e la latitanza del Tamunga finirebbe dopo 23 anni. Nell’indagine “Magma” del novembre 2019, però, si scopre che Carmelo Aglioti – un imprenditore di Rosarno legato a varie cosche – ha attivato una rete di avvocati italo-sudamericani per convogliare in Uruguay una prima tranche di 50mila euro e corrompere alcune figure che possono impedire l’estradizione.
L’espediente funziona? Di sicuro c’è che in una notte di giugno del 2019 Rocco Morabito e altri tre detenuti del penitenziario San José di Montevideo evadono dai tetti. Sarà catturato di nuovo solo nel 2021 a Joāo Pessoa, in Brasile, grazie a un’operazione di I-Can (International Cooperation Against the ‘Ndrangheta), la partnership dell’Interpol che riunisce dodici nazioni contro la criminalità calabrese.
L’ultimo trucco del Tamunga
Senza il procedimento di San Paolo Rocco Morabito sarebbe già in Italia. La politica italiana, che si mobilitò per l’estradizione del terrorista Cesare Battisti, finora sta tacendo sul secondo latitante più ricercato del paese.
Ma riportare Rocco Morabito in Italia significa consacrare definitivamente quello che gli investigatori di I-Can sanno già da tempo: la ‘Ndrangheta non è solo un fenomeno transnazionale capace di sedersi a fianco di organizzazioni come il clan del Golfo della Colombia, i brasiliani del Primeiro Comando da Capital e i cartelli messicani e ispirarle.
Non è solo il trampolino del narcotraffico verso l’Europa, insieme ai fratelli minori della mafia albanese. È diventata una colonna dell’establishment politico-criminale che infetta le istituzioni dei paesi più fragili – dall’America Latina alla Slovacchia – e distorce l’economia delle nazioni più mature, dal Canada fino alla Germania e all’Australia.
Riportare Rocco Morabito in Italia significa smentire l’impunità di cui si circondavano uno dei motori del narcotraffico globale e i suoi complici, che in Italia con il ricavato della coca hanno divorato migliaia e migliaia di attività legali. È una giustizia dovuta a tutte le vittime, incluse quelle che non hanno mai avuto l’opportunità di lasciare tutte le Africo della Calabria.
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