- Tutto nasce con la manifestazione contro l’alternanza scuola lavoro nel capoluogo torinese del 18 febbraio scorso. Il clima è teso dopo gli scontri delle settimane precedenti, i giovani provano ad entrare nella sede di Confindustria, le forze dell’ordine li bloccano e loro lanciano oggetti e colpiscono con i bastoni di plastica delle bandiere.
- L’11 maggio, infatti, undici ragazzi di cui il più vecchio ha 22 anni, vengono prelevati da casa e portati in commissariato dalla Digos: per tre di loro è scattata la misura cautelare in carcere, altri sono finiti ai domiciliari, altri ancora hanno avuto l’obbligo di firma.
- Queste misure sono state solo lievemente ridimensionate dal tribunale del riesame: uno dei ragazzi rimane in carcere, altri sono ai domiciliari. Il reato è resistenza aggravata a pubblico ufficiale e le misure sono state disposte sull’ipotesi che la pena superi i tre anni. Ma per casi molto più gravi, la pena non ha mai superato i due anni e mezzo.
Il tribunale del Riesame di Torino ha scelto la linea dura contro i ragazzi che hanno manifestato contro l’alternanza scuola-lavoro, confermando la scelta di utilizzare misure cautelari pesanti nei confronti di giovani incensurati in attesa del processo.
Tutto nasce con la manifestazione nel capoluogo torinese del 18 febbraio scorso. Appena tre settimane prima, nella manifestazione del 28 gennaio, gli studenti in piazza erano stati picchiati dalle forze dell’ordine e venti ragazzi erano rimasti feriti. Il clima, quindi, era già teso alla vigilia. Nella manifestazione di febbraio, il corteo punta verso la sede dell’Unione degli industriali e i manifestanti chiedono di entrare per lanciare un messaggio politico. La sede è presidiata dalla polizia in assetto antisommossa, che ha creato un cordone dietro al cancello automatico di ingresso. Il corteo spinge, parte il lancio di oggetti contro l’edificio e i ragazzi infilano le aste delle bandiere tra le sbarre della cancellata colpendo i poliziotti. Poi, provando a forzare il cancello, spingono sugli scudi. Il bilancio finale della giornata è di sette agenti feriti, il più grave dei quali con una prognosi di 10 giorni.
Le misure cautelari
Torino, però, non è una città qualsiasi: è dal 2010, dall’inizio dei movimenti No tav, che è nota in tutta Italia per essere luogo in cui le manifestazioni con contrasti tra polizia e manifestanti non passano mai impunite, soprattutto attraverso l’utilizzo delle misure cautelari.
Così è anche in questo caso. L’11 maggio, infatti, undici ragazzi di cui il più vecchio ha 22 anni, vengono prelevati da casa e portati in commissariato dalla Digos: per tre di loro è scattata la misura cautelare in carcere, altri sono finiti ai domiciliari, altri ancora hanno avuto l’obbligo di firma. Per tutti, il reato contestato è quello di resistenza aggravata a pubblico ufficiale perchè “in concorso tra loro, nel corso di una manifestazione studentesca, nel tentativo di varcare un cancello carrabile, aggredivano ripetutamente con aste, bastoni, pugni e uova di vernice” le forze dell’ordine. Il reato, secondo il capo di imputazione, sarebbe aggravato dal fatto che la violenza sia stata commessa mediante lancio di “corpi contundenti” da più di 10 persone, alcune delle quali erano travisate (indossavano le mascherine, perchè ancora obbligatorie dalle restrizioni Covid).
La sproporzione
Immediatamente, le famiglie dei ragazzi fanno ricorso al tribunale del Riesame chiedendo che le misure cautelari vengano revocate: si tratta di ragazzi giovani, tutti incensurati e alcuni nemmeno noti alle forze dell’ordine per precedenti manifestazioni. Invece, il tribunale attenua solamente le decisioni del Gip: dei tre in carcere solo due vengono messi agli arresti domiciliari ma con obbligo di braccialetto elettronico (quindi la misura verrà eseguita solo quando e se si troverà il braccialetto), «e con prescrizioni durissime, che non si vedono nemmeno in caso di reati molto più gravi: possono vedere solo chi convive con loro, hanno divieto di comunicazione con mezzi anche tecnologici e il divieto di andare a scuola o all’università e al lavoro», dice l’avvocato Valentina Colletta che li difende. Alcuni di quelli agli arresti domiciliari ottengono invece l’obbligo di firma quotidiano, mentre Sara – la ragazza diventata simbolo della precedente manifestazione per la foto che la ritraeva insanguinata – deve rimanere ai domiciliari.
Per tutti loro, il tribunale ha ritenuto che esista il rischio di reiterazione del reato e che quindi siano necessarie misure così restrittive, prima ancora che il processo cominci e si verifichino effettivamente le loro responsabilità. C’è un dato eclatante, nella posizione dei giudici torinesi: «il Gip ha applicato le misure dei domiciliari e del carcere sul presupposto per cui si presume che avranno in giudizio una pena superiore a 3 anni», spiega l’avvocato Andrea Novaro, che difende alcuni dei ragazzi, perchè in caso contrario le misure custodiali non possono essere utilizzate.
Il che sarebbe anche plausibile, visto che da codice penale si tratta di un reato con pene particolarmente rilevanti. Ma cozza contro la realtà dei processi per resistenza contro pubblico ufficiale. «Prendendo un caso estremo come il maxi-processo contro i no Tav per i fatti del luglio 2011 in val di Susa, in cui ci furono più di 200 feriti tra le forze dell’ordine e gli imputati avevano anche precedenti penali, la pena massima è stata di 2 anni», spiega Novaro, «per questo ritengo che la decisione del tribunale del riesame sia in contrasto con i principi dell’ordinamento penale».
Invece, per un caso di resistenza a pubblico ufficiale con una dinamica decisamente lieve, commesso da ragazzi molto giovani e tutti incensurati, sono state applicate misure cautelari con l’ipotesi che la pena possa essere superiore ai tre anni di carcere.
Consultando la giurisprudenza in casi di questo tipo, è ipotizzabile che anche i ragazzi che non verranno prosciolti avranno una pena decisamente inferiore ai due anni di carcere e a tutti sarà applicata la condizionale, visto che sono incensurati. Tradotto: con tutta probabilità, a posteriori bisognerà constatare che le misure cautelari applicate siano state effettivamente abnormi e come tali lo Stato potrebbe anche trovarsi a doverle risarcire come ingiuste detenzioni. In particolare per chi è rimasto per settimane o mesi nel carcere delle Vallette, considerato tra i più duri d’Italia.
Il caso Torino
L’interrogativo è sul perchè di un trattamento di questo tipo, che in altre città sarebbe impensabile. La causa, probabilmente, va identificata nel clima che da anni scalda Torino.
Tutti i ragazzi sottoposti a misure cautelari, infatti, sono attivisti politici e una parte di loro è già nota alle forze dell’ordine per aver partecipato alle manifestazioni contro l’alta velocità: alcuni di loro, infatti, sono attivisti politici no tav e per questo hanno segnalazioni di polizia fatte dalla Digos per altre manifestazioni anche in val di Susa.
Nei confronti dei movimenti no tav la procura di Torino - in sintonia con le forze dell’ordine – utilizza da sempre una mano molto pesante per reprimere fenomeni violenti, con ampio utilizzo in particolare delle misure cautelari. Proprio la repressione di questo tipo di antagonismo politico, Torino può contare su un pool di magistrati specializzati. Nel 2010 e dunque prima dello scoppio della contestazione no tav in tutta la sua violenza, infatti, la procura ha istituito un nucleo chiamato ad occuparsi solo di conflitto sociale, con la denominazione di pool «Terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Reati in occasione di manifestazioni pubbliche». E proprio a questo dipartimento interno alla procura sono state affidate anche le indagini a carico dei ragazzi alle manifestazioni contro l’alternanza scuola-lavoro.
© Riproduzione riservata