La Corte costituzionale, ancora orfana del quindicesimo giudice a causa dell’inerzia del parlamento e che a breve sarà privata di altri tre membri in scadenza il 21 dicembre, ha aperto ieri l’udienza pubblica in materia di autonomia differenziata.

La questione, oltre che essere complessa, è controversa: riguarda la riforma – bandiera leghista nell’azione del governo – impugnata in via diretta da quattro regioni per conflitto di attribuzioni. Il punto principale, sotto il profilo costituzionale, riguarda l’interpretazione dell’articolo 116 della Costituzione sull’autonomia regionale. I ricorsi provengono da Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, tutte a guida centrosinistra, che hanno impugnato la legge sia nella sua totalità sia in riferimento a specifiche disposizioni: la leale collaborazione, il procedimento con cui verranno approvate le intese tra stato e regione e, soprattutto, il finanziamento delle funzioni trasferite.

Questo è il tasto più dolente per il governo, ancora non risolto con l’effettiva fissazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni per le materie che riguardano diritti civili e sociali, per cui è necessario uno standard minimo nazionale.

Vista l’articolazione dei ricorsi, il giudizio non sarà rapido. Intanto ieri la Corte ha ritenuto ammissibili gli interventi ad opponendum (in opposizione alle tesi prospettate dai ricorsi) delle regioni Piemonte, Veneto e Lombardia, governate dal centrodestra. Nel merito invece, il costituzionalista Massimo Luciani, avvocato della regione Puglia, ha detto che «è una legge tutt’altro che inoffensiva», perché «compromette la solidarietà tra regioni» e il trasferimento di blocchi di materie nella loro interezza «distrugge il meccanismo della competenza concorrente e la capacità di governo unitario».

L’avvocato della regione Toscana, Andrea Pertici (considerato tra i papabili per uno dei posti vacanti di giudice costituzionale, in quota centrosinistra) ha aggiunto che la legge Calderoli crea un sistema «finanziariamente insostenibile» e «antisolidaristico».

Oggi la Corte si riunirà in camera di Consiglio per decidere e in ogni caso, viene fatto sapere, la sentenza verrà depositata entro metà dicembre. Una data non irrilevante per due ordini di ragioni: si colloca prima della cessazione dell’incarico di altri tre giudici costituzionali (tra cui l’attuale presidente Augusto Barbera) ma soprattutto prima di quando la Cassazione deciderà sull’ammissibilità dei referendum abrogativi presentati sulla stessa legge Calderoli.

Le questioni politiche

Proprio quest’ultimo punto è fondamentale: come viene fatto notare da chi conosce bene questo tipo di ricorsi, non serve che la Corte decida per l’abrogazione per intero della legge, per bloccarne sostanzialmente il funzionamento. Se i giudici accoglieranno il ricorso delle regioni per quanto riguarda il finanziamento delle materie, la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni e il mancato rispetto del principio di leale collaborazione tra stato e regioni, ecco che il disegno autonomista di Calderoli verrebbe di fatto smontato.

Proprio questa è un’ipotesi realistica: la legge, in particolare nella parte che riguarda i Lep, porta con sé un rischio di pregiudizio per i diritti dei cittadini a seconda della regione. Se così sarà, c’è da attendersi un effetto domino.

Con la dichiarazione di incostituzionalità di parti essenziali della riforma, la Cassazione potrebbe decidere che i quesiti referendari presentati con la raccolta firme siano superati. Dunque, niente referendum. Qualora così non fosse, l’ultima parola sull’ammissibilità costituzionale dei quesiti spetterà comunque alla stessa Consulta, entro il 20 gennaio prossimo.

Se così fosse, l’effetto politico sarebbe inevitabile. In casa Lega, la legge attesa per trent’anni e finalmente approvata scivolerebbe via per un soffio ai governatori del nord. Nell’attribuzione delle colpe, però, i leghisti non potrebbero che guardare in casa, visto che la legge è stata scritta da Calderoli con la benedizione di Matteo Salvini.

Per gli altri due alleati, invece, un eventuale stop risolverebbe più di un problema. Forza Italia, di cui fanno parte molti governatori del Sud, non ha mai fatto mistero delle sue riserve sull’autonomia e anche Giorgia Meloni – che per cultura ha concezione centralistica dello stato – sanerebbe la contraddizione nei confronti del suo elettorato meridionale. Sul fronte comunicativo, invece, si nutrirebbe la narrazione di una segreta congiura istituzionale per sabotare l’azione riformatrice del governo. Tutte considerazioni bene impresse nella mente degli attori in campo.

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