Il presidente Barbera ha detto che, se il parlamento rimane immobile, la Corte interverrà con nuove pronunce. Il 26 marzo torna in commissione il ddl Bazoli, che era stato approvato dalla Camera nella scorsa legislatura
A cinque anni dalla sentenza Cappato sul fine vita senza che sia intervenuta una legge che risolva il vuoto, la Corte costituzionale ha dato il suo ultimatum. A farlo in modo inequivocabile è stato il presidente della Consulta, Augusto Barbera, durante l’illustrazione della relazione sull’ultimo anno di lavoro della corte: «Non si può non manifestare un certo rammarico per il fatto che nei casi più significativi il legislatore non sia intervenuto, rinunciando ad una prerogativa che ad esso compete, obbligando questa Corte a procedere con una propria e autonoma soluzione», è stata la premessa. Con una chiara conclusione: «Se rimane l'inerzia del parlamento, la Corte costituzionale ad un certo punto non potrà non intervenire».
E quel certo punto è estremamente vicino: come ha ricordato Barbera, davanti alla corte pende un’ordinanza del Tribunale di Firenze, sul caso di un malato di Sla che non assume più i farmaci e si candida «in astratto» ad essere la nuova testa d’ariete per aprire di nuovo la questione. Del resto, come ha ricordato Barbera, ormai si moltiplicano «le iniziative delle regioni a supplenza del parlamento», con il rischio di una normativa diversa da regione a regione.
I tempi
Del resto, la questione dell’assenza di una legge è risalente era stata ben evidenziata proprio nella sentenza Cappato, in cui i giudici avevano scritto come già in quel caso la Consulta avesse rimandato la decisione nella speranza che il parlamento legiferasse, ma senza esito. E, in conclusione di motivazione, si legge che «questa Corte non può fare a meno, peraltro, di ribadire con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente enunciati». Parole rimaste al vento, che hanno reso di fatto la sentenza Cappato – che ha stabilito la non punibilità dell’aiuto al suicidio assistito in determinati casi – un decalogo giurisprudenziale delle condizioni concrete in cui l’accesso alla procedura di aiuto alla morte volontaria è legale. La sentenza, infatti, prevede che i requisiti del malato siano la capacità di autodeterminarsi, il fatto che sia affetto da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili e la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Requisiti, questi, che devono essere verificati dal servizio sanitario, con parere del comitato etico competente a livello territoriale, e solo all’esito di questi controlli il malato può accedere al suicidio assistito.
Il parlamento
Eppure, nulla si muove in concreto, soprattutto a causa della contrarietà sia della Lega che di Forza Italia almeno nelle indicazioni del partito (alcuni deputati, infatti si sono espressi diversamente). Attualmente, infatti, sono depositate in parlamento otto proposte di legge, tutte dell’opposizione. Quella che apparentemente ha più chances almeno di essere discussa è stata presentata a prima firma del senatore dem Alfredo Bazoli – accompagnata da una identica sottoscritta da Enrico Costa di Azione – che riprende il testo unificato già approvato in prima lettura alla Camera nella scorsa legislatura.
Il testo è stato calendarizzato alle commissione Giustizia e Affari sociali del Senato il prossimo 26 marzo, ma già in passato si è scontrato con lo scetticismo delle associazioni e la contrarietà di una parte del parlamento. Il ddl, però, viene considerato troppo soft da una voce autorevole come quella di Cappato, perché secondo lui «in realtà il ddl punta a restringere i diritti già esistenti». In realtà il testo, che è stato il frutto di una opera di compromesso tra i partiti della maggioranza Draghi, riprende le condizioni previste dalla sentenza costituzionale, ma chiarisce la necessità che il paziente sia stato «previamente coinvolto in un percorso di cure palliative» e le abbia rifiutate o interrotte e che il malato sia tenuto in vita da un macchinario sanitario.
Esiste poi anche una proposta depositata dal Movimento 5 Stelle sia alla Camera che Al senato, che disciplina non solo il suicidio medicalmente assistito ma anche l’eutanasia. Il testo in questo caso va oltre la sentenza costituzionale, perché non fa riferimenti né alle cure palliative ne ai macchinari salvavita. Stesso orientamento emerge anche dalle proposte depositate in entrambe le camere da Alleanza verdi sinistra, che estende anche la non punibilità per chi assiste il paziente. In questa direzione, pur non prevedendo anche l’eutanasia, va anche la proposta di legge del segretario di Più Europa Riccardo Magi.
Nulla, invece, arriva dai ranghi della maggioranza. Se dal parlamento il centrodestra rimane silente, sono invece anche le regioni a maggioranza conservatrice a premere perché venga approvata una legge regionale sul tema: una su tutte il Veneto, ma anche la Liguria. Anche a rischio, come emerso dalle parole di Barbera, che ogni regione normi la questione in maniera autonoma per ciò che le compete.
Questa, infatti, è diventata anche la strada privilegiata dall’associazione Luca Coscioni: la sentenza della consulta, infatti, prevede competenza regionale non a legiferare sul fine vita, ma a disciplinare in una legge i tempi certi di risposta ai malati e le procedure già stabilite dalla sentenza costituzionale. Il risultato è stato la presentazione in 15 regioni della proposta di legge regionale sotto il nome di “Liberi subito”, depositata per iniziativa di singoli consiglieri regionali o per iniziativa dei comuni.
In altre parole, le leggi regionali possono solo regolare le condizioni già poste dalla Consulta in modo da evitare che il malato debba adottare la via giudiziaria per vedersi garantito un diritto in tempi certi. Una tappa intermedia, quindi, con il grosso limite di una potenziale diversità di trattamento da regione a regione, con percorsi più semplici nelle regioni dove la legge verrà approvata e più complicati nelle altre.
Nel mondo
In attesa che questo groviglio di inerzia e complicazioni legislative si risolva, il dato è che l’Italia si colloca irrimediabilmente indietro rispetto agli altri paesi che hanno normato il suicidio assistito. Come emerge da un’indagine di Alessia Cicatelli per l’associazione Coscioni, infatti, solo in Italia il suicidio assisto è legato al fatto che i pazienti siano tenuti in vita da un trattamento di sostegno vitale. Questo perché, come spiega l’indagine, «La Corte costituzionale non poteva spingersi oltre e sconfinare nel potere legislativo proprio del parlamento, individuando casi diversi da quello su cui era chiamata a esprimersi». Dj Fabo, il malato della sentenza Cappato, era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e questo è diventato un requisito la cui presenza è necessaria per poter accedere legalmente.
Ecco perché è fondamentale una pronuncia del legislatore: interpretata restrittivamente, la sentenza impedisce alla maggior parte dei pazienti oncologici terminali di accedere alla procedura. Altrimenti, l’unica altra strada è quella di portare davanti alla Consulta una casistica diversa da quella di dj Fabo, nell’ipotesi che i giudici allarghino le maglie dei diritti per altre tipologie di pazienti, altrimenti lasciati nel limbo.
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