La mossa è stata promossa dall’associazione Coscioni, con una legge depositata in 14 regioni che fissa i tempi previsti dalla sentenza Cappato. Ma il rischio è di creare cittadini di sere A e B
Il governo Meloni ha escluso qualsiasi intervento per normare il cosiddetto “fine vita”, ovvero la procedura che permette ai cittadini di accedere alla procedura di suicidio assistito. La questione, però, come un fiume carsico ha continuato a procedere per altri rivoli: meno visibili rispetto a una legge nazionale ma comunque capaci di scuotere una politica in questo momento incapaci di decidere. La via scelta, infatti, è stata quella di promuovere una legge a livello regionale da proporre in tutti i consigli, facendo leva sulla storica sentenza del 2019 della Corte costituzionale.
Il motore di tutto è stata l’associazione Luca Coscioni, fondata e che porta il nome dell’ex presidente dei Radicali italiani morto di sla nel 2006 e simbolo della lotta per la libertà di scelta in ambito sanitario.
Nonostante l’inammissibilità stabilita dalla Consulta del referendum sul fine vita promosso nel 2022, infatti, i giudici costituzionali sono comunque stati lo strumento creativo trovato dall’associazione per portare avanti il tema. La sentenza del 2019 - nota come sentenza Cappato che ha stabilito la non punibilità dell’aiuto al suicidio assistito per l’attuale tesoriere dell’associazione nel caso di dj Fabo – ha infatti anche stabilito condizioni concrete in cui l’accesso alla procedura di aiuto alla morte volontaria è legale: la capacità del malato di autodeterminarsi, il fatto che sia affetto da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili e la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Requisiti, questi, che devono essere verificati dal servizio sanitario, con parere del comitato etico competente a livello territoriale.
Questo è stato il pertugio da cui l’associazione ha ricavato la competenza delle regioni non a legiferare sul fine vita, ma a disciplinare in una legge i tempi certi di risposta ai malati e le procedure già stabilite dalla sentenza costituzionale.
Il risultato è stato la presentazione in 14 regioni della proposta di legge regionale sotto il nome di “Liberi subito”, associata a una raccolta di firme perchè la legge possa essere di iniziativa popolare. In realtà, in molte regioni la proposta di legge è stata depositata per iniziativa di singoli consiglieri regionali o per iniziativa dei comuni.
Con il risultato di fatto di bypassare il parlamento, grazie al combinato disposto delle competenze regionali concorrenti in ambito sanitario e della sentenza costituzionale. In realtà, il parlamento non è completamente tagliato fuori: le leggi regionali, infatti, «non possono ampliare o restringere il diritto già legalizzato dalla Consulta, possono solo stabilire regole certe e scadenze precise che obbligano il servizio sanitario regionale a dare una risposta alle persone», spiegano Marco Cappato e Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni.
In altre parole, le leggi regionali non legalizzano l’eutanasia – cosa che potrebbe fare solo una legge nazionale, come chiesto dalla stessa Consulta - ma regolano solamente le condizioni già poste dalla Consulta in modo da evitare che il malato debba adottare la via giudiziaria per vederselo garantito in tempi certi. Una tappa intermedia quindi rispetto al risultato più ampio che è il vero obiettivo dell’associazione, con un grosso limite: la diversità di trattamento da regione a regione per i malati, con percorsi più semplici nelle regioni dove la legge verrà approvata e più complicati nelle altre.
Il no trasversale
La legge regionale è stata depositata in forma identica in quattordici regioni, con esiti ancora non definitivi ma che già hanno diviso i consigli, sia di centrodestra che di centrosinistra. In Veneto, dove la proposta è stata portata avanti dallo stesso governatore leghista Luca Zaia è stata bocciata in consiglio per la mancanza di maggioranza assoluta (sono mancati i voti di una parte del centrodestra ma anche uno, determinante, di una consigliera del Pd) per l’approvazione ed è tornata in commissione. In Emilia Romagna, invece, il presidente Bonaccini ha provato a superare la contrarietà del suo consiglio di centrosinistra trasponendo il contenuto della legge in un regolamento della giunta, che però è un tipo di normazione secondaria che non garantisce i malati. La discussione è attesa anche in Piemonte, Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Toscana e Lombardia, dove gli uffici tecnici hanno ritenuto che la pdl rientri nelle competenze regionali e il deposito è avvenuto anche in Sardegna, Basilicata, Lazio, Liguria, Puglia, Marche e Calabria.
Sul fronte della destra, dopo Zaia (che pure non è arrivato all’approvazione a causa del mancato appoggio dei suoi), anche il governatore ligure Giovanni Toti ha mostrato segnali di apertura
Non solo il leghista Luca Zaia, ora anche Giovanni Toti mostra segnali di apertura dicendo che «anche io come Zaia voterei a favore», ma ha specificato che «sulle questioni etiche non debbano esserci rigide discipline o diktat di partito».
La mossa dell’associazione Coscioni, tuttavia, solleva un punto chiave: la mancanza di assunzione di responsabilità da parte della politica a livello nazionale, che continua a rimanere inerte, con il rischio di creare disparità regionali, con cittadini di serie A e di serie B proprio nel momento estremo della vita.
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