Per ridurre drasticamente il numero di detenuti esiste una categoria su cui incidere: chi è in carcere a causa della legge sulle droghe del 1990 e i tossicodipendenti.

Secondo il quindicesimo Libro Bianco sulle droghe curato dall’associazione Luca Coscioni, infatti, nel 2023 sono tornati a salire gli ingressi in carcere per droghe: 10.697 dei 40.661 ingressi in carcere nel 2023 (il 26,3 per cento) hanno avuto come causa la commissione del reato di cui all’articolo 73 del Testo unico, ovvero la detenzione a fini di spaccio.

Dei 60mila detenuti in carcere a dicembre 2023, 12.946 lo erano a causa dell’articolo 73 e altri 6.575 in associazione con l’articolo 74, ovvero l’associazione finalizzata al traffico illecito.

I numeri restituiscono un quadro impressionante, fuori scala rispetto agli altri paesi europei: in Italia, infatti, il 34 per cento dei detenuti è in carcere per la legge sulle droghe, quasi il doppio della media dell’Ue che si assesta al 18 per cento.

Non a caso, chi si occupa del settore sostiene da tempo la necessità di rivedere l’articolo 73 del Testo unico, che punisce con pene dai 6 ai 20 anni e la multa da 26mila a 260mila euro chi «coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope» e, nel caso della «lieve entità», abbassa la pena da sei mesi a cinque anni e la multa da 1032 a 10329 euro.

L’articolo 73, dunque, è l’architrave del sistema repressivo in materia di droghe: estremamente rigido e senza alcuna vera gradazione delle condotte in termini oggettivi, produce una enorme mole di procedimenti penali e denunce, senza tuttavia evidentemente intaccare la diffusione del fenomeno.

Non esistono solo i reati di droga, però, ma anche la droga in carcere. Sempre come certificato dal Libro Bianco, quasi il 40per cento di chi entra in carcere usa droghe, ovvero 17.400 persone: un record negli ultimi 18 anni. Infatti, i detenuti definiti “tossicodipendenti” sono il 38 per cento di coloro che entrano in carcere. Persone con estremo bisogno di cure per gestire e cercare di uscire dalla dipendenza, che però si trovano in un contesto di sovraffollamento e di precarietà sanitaria.

I tentativi di riforma

Per questo, durante la Conferenza nazionale sulle dipendenze di Genova nel 2021, nella relazione finale si legge che sarebbe utile «sottrarre all’azione penale sia la coltivazione di cannabis a uso domestico, sia la cessione di modeste quantità per uso di gruppo laddove non sia presente la finalità di profitto» e andrebbe superato «il rigido sistema tabellare per stabilire la quantità di prodotto a uso personale e quello che si presume per spaccio, rimettendo il giudizio alla discrezionalità del giudice».

Proprio sulla base di questi dati, rimasti stabili negli anni, il deputato di Più Europa Riccardo Magi, sostenuto anche dal Pd e dal Movimento 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per modificare il Testo Unico sulle droghe, con l’obiettivo di depenalizzare una serie di fatti, commessi soprattutto da giovani e giovanissimi, introducendo una maggior gradazione sulla gravità delle condotte. Inoltre, legalizzando la coltivazione ad uso personale si dovrebbe prosciugare il mercato illegale che oggi è una delle principali fonti di reddito delle organizzazioni criminali.

Il dl Caivano

Il governo, invece, ha scelto una via molto diversa e improntata alla repressione. In materia penale, infatti, ha inasprito le pene attraverso il decreto Caivano del 2023 prevedendo l’arresto anche per i ragazzi dai 14 anni in caso di reati di lieve entità e l’allontanamento con Daspo dalle scuole e dalle università anche nel caso di semplice «uso o detenzione di stupefacenti».

L’ultima parola sul carcere per l’adolescente colpevole spetta al tribunale dei minori, ma il decreto prevede un inasprimento sanzionatorio per lo spaccio di stupefacenti di lieve entità, con la possibilità di arresto in flagranza e l’ampliamento dei casi di applicabilità della pena detentiva in carcere sia per i minori che per gli adulti.

In altre parole, con il decreto Caivano un adolescente in possesso di cannabis potrebbe non poter più frequentare la scuola e, se colto in flagranza di spaccio anche di pochi grammi di cannabis, può venire arrestato immediatamente.

L’effetto è stato immediato: dall’entrata in vigore delle nuove norme, gli Istituti penali per i minorenni hanno raggiunto all’inizio del 2024 circa 500 detenuti presenti, il numero più alto registrato negli ultimi dieci anni e gli ingressi nel 2023 sono stati 1143, la cifra più alta negli ultimi quindici anni. Secondo i dati, inoltre, risulta che la crescita maggiore è quella registrata per le violazioni della legge sugli stupefacenti, con un aumento del 37,4 per cento dei detenuti minori rispetto al 2022.

La cannabis light

Al governo Meloni, tuttavia, non basta la già dura repressione in materia di stupefacenti. Tra le modifiche approvate in commissione alla Camera al disegno di legge sicurezza con un emendamento del governo, infatti, c’è anche la messa al bando della cannabis light, che viene sostanzialmente equiparata a quella tradizionale, nonostante contenga quantità di THC inferiori allo 0,2 per cento. Ora bisognerà aspettare l’aula a settembre per vedere se ci sarà il via libera, ma la misura è stata rivendicata dalla maggioranza come una norma per «stroncare il mercato della cosiddetta cannabis light» ha commentato l’azzurro Maurizio Gasparri. Il presidente dei senatori di Forza Italia, infatti, ha sostenuto che «chi difende la cannabis light difende sostanzialmente attività ambigue e pericolose. Va stroncata ogni forma di incoraggiamento all'uso delle droghe e alla propaganda delle droghe». Peccato che la mossa cancelli una filiera produttiva da 11mila posti di lavoro in Italia in cui negli ultimi anni si sono fatti investimenti significativi e un mercato da quasi 200 milioni di euro. E, potenzialmente, restituisca al mercato illegale nuovi consumatori che rischieranno conseguenze penali.

Il dl Carceri

Se dunque per i colpevoli o indagati per reati di droga il governo ha scelto di adottare il pugno duro, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha apparentemente ammorbidito le posizioni invece nei confronti dei detenuti tossicodipendenti.

«Se mettiamo assieme la possibilità per i tossicodipendenti di andare in altre strutture, con quella di far tornare nel proprio Paese i detenuti stranieri, sulla quale stiamo lavorando notte e giorno, assieme alla Farnesina, possiamo arrivare a 15-20 mila detenuti in meno. Ecco risolto il sovraffollamento», ha detto Nordio in una recente intervista al Corriere della Sera.

In realtà, però, la strada è lunga e il decreto non è nemmeno l’inizio. Il testo, infatti, prevede di fatto solo l’istituzione di un albo delle comunità, che è una soluzione molto vaga. Secondo i numeri del ministero dell’Interno, in Italia esistono circa 1100 strutture potenzialmente con i requisiti adatti, di cui meno di 800 anche residenziali e comunque non organizzate per la gestione di un alto numero di detenuti. Il decreto, poi, non specifica nemmeno le modalità con cui queste strutture dovrebbero accogliere un soggetto che è comunque detenuto, quindi non è gestibile come un normale cittadino che si ricovera per la disintossicazione. Con un ulteriore problema, fatto notare dalla responsabile Giustizia del Pd, Debora Serracchiani: «Questo comporterebbe spostare su strutture sanitarie la gestione della detenzione? Ricordo che la sanità è di competenza regionale e stabilire una cosa del genere senza interpellare le Regioni poterebbe allo stesso caos provocato con il ddl sulle liste d’attesa».

Se dunque il ministro ha messo a fuoco correttamente uno dei punti più problematici – il carcere non è un luogo adatto a gestire e riabilitare un tossicodipendente – l’iniziativa concreta manca del tutto. Con buona pace di Forza Italia, che ha a parole criticato il decreto ma poi ha ritirato il suo pacchetto di emendamenti, ma che ora sta passando un’estate a girare le carceri insieme al partito radicale, certificando il disagio nella quasi totalità dei penitenziari italiani. Paradossalmente, il decreto Carceri ha avuto una sola vera funzione: l’introduzione del nuovo reato di peculato per distrazione, che certamente non si può dire abbia funzione di ridurre gli ingressi in carcere.

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