Nel libro Il sistema, l’ex presidente dell’Anm accusa il magistrato antimafia di aver orchestrato la sua caduta. Il meccanismo gli si sarebbe ritorto contro, nel momento in cui ha provato a scegliere il suo successore
- Radiato dalla magistratura e imputato per corruzione dalla procura di Perugia, per Palamara il tradimento sarebbe quello compiuto da Pignatone ai suoi danni.
- Tutto inizia e finisce con la procura di Roma: l’ufficio più importante d’Italia, che nella gerarchia politico-giudiziaria equivale a due ministeri.
- L’allusione del libro è: Palamara salta nel momento in cui scavalca Pignatone nella scelta del suo successore.
Tutto inizia e finisce con la procura di Roma: l’ufficio più importante d’Italia, che nella gerarchia politico-giudiziaria equivale a due ministeri. Qui inizia il caso Palamara, scoperto con le intercettazioni dell’Hotel Champagne, in cui il magistrato insieme a Luca Lotti, Cosimo Ferri e due membri del Consiglio superiore della magistratura si accorda per il successore a capo della procura. Secondo Palamara, invece, la storia inizierebbe nel marzo 2012, con la nomina a procuratore capo della capitale di Giuseppe Pignatone.
«Se vogliamo usare la parola tradimento, possiamo farlo», ha detto Luca Palamara durante la presentazione del libro-intervista Il sistema, scritto da Alessandro Sallusti e primo tassello della difesa pubblica dell’ex magistrato. Radiato dalla magistratura e imputato per corruzione dalla procura di Perugia, per Palamara il tradimento sarebbe quello compiuto da Pignatone ai suoi danni.
Il libro-intervista ha già ricevuto numerose smentite e annunci di querela: il primo è stato l’ex procuratore aggiunto di Roma, Giuseppe Cascini, che ha detto che è «tutto inventato». Se il libro se fosse un romanzo, Pignatone sarebbe l’amico che si trasforma in regista che ordisce la caduta di Palamara.
Nato a Caltanissetta nel 1949 e figlio di un deputato democristiano, Giuseppe Pignatone diventa magistrato e nel 1977 viene nominato sostituto procuratore a Palermo. Negli anni si ritaglia spazio come uno dei più stretti collaboratori del procuratore capo Pietro Giammanco, in forte antagonismo e contrasto con Giovanni Falcone.
È il periodo dei veleni nel palazzo di giustizia di Palermo: Falcone annota nei suoi diari del progressivo ostracismo che sta subendo anche da parte dei colleghi, che lo costringono a lasciare il capoluogo siciliano. Proprio questa scelta di campo avrebbe segnato la carriera di Pignatone.
Dopo la strage di Capaci viene costretto ai margini e, nonostante i suoi quasi trent’anni di servizio in quella procura e i successi professionali, la sua nomina a procuratore capo nel 2006 sarebbe stata impedita dai colleghi siciliani. Inizia così il suo “esilio” a Reggio Calabria, dove esporta il sistema di indagine applicato a Palermo: qui ottiene visibilità nazionale dopo alcune indagini contro la ‘ndrangheta che lo rendono vittima di intimidazioni e minacce. La più nota, nel 2010, è il ritrovamento di un bazooka “indirizzato” a lui davanti alla sede della procura di Reggio Calabria.
«Lo conosco nel 2011, quando come presidente Anm intensifico la mia presenza a Reggio Calabria», racconta Palamara a Sallusti, «e Pignatone, ben conoscendo il mio ruolo nella politica associativa, inizia a parlarmi delle sue ambizioni future».
La procura di Roma
Palamara sostiene di essere l’orchestratore della nomina di Pignatone a capo della procura di Roma nel 2012. L’avversario da sconfiggere è Giancarlo Capaldo, il braccio destro del procuratore capo uscente Giovanni Ferrara, che però viene messo fuori dai giochi a causa di una fuga di notizie su una sua cena con un indagato nell’inchiesta Finmeccanica.
Pignatone viene nominato all’unanimità procuratore capo e nel libro Palamara rivendica di aver utilizzato di nuovo la sua influenza di «signore delle tessere» per muovere le pedine sulla scacchiera e accontentare Pignatone, che gli avrebbe caldeggiato il trasferimento a Roma dei suoi stretti collaboratori: il magistrato Michele Prestipino e alcuni ufficiali della polizia giudiziaria.
«Lo aiuto a circondarsi di investigatori di sua scelta – qualcuno dirà che si era fatto una polizia privata – ma soprattutto mi impegno a portargli a Roma come vice il suo braccio destro di sempre, il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che era rimasto a Reggio Calabria a fare la guardia all’ufficio. Con lui Pignatone – fu una sua confidenza – avrebbe voluto cambiare l’agenda della procura di Roma, sterzare su grosse indagini contro la criminalità organizzata mafiosa, come aveva fatto a Palermo prima e a Reggio Calabria poi», dice ancora Palamara. Il racconto trascritto da Sallusti è quello di un Palamara che si presterebbe a esercitare il ruolo di braccio esecutivo di Pignatone, assecondandone le richieste attraverso la sua rete correntizia. A questo punto arriva il tradimento: all’indomani del successo di Palamara nella nomina di Riccardo Fuzio a procuratore generale della Cassazione, Pignatone gli avrebbe comunicato che «con la Guardia di finanza abbiamo fatto degli accertamenti su un albergo e risulta che una notte tu hai dormito lì con una donna che non è tua moglie» e ancora «stiamo indagando sul tuo amico Fabrizio Centofanti e c’è il sospetto che lui abbia sostenuto le tue spese».
L’indagine è quella sull’imprenditore Centofanti, amico comune anche di Pignatone ma che il procuratore capo farà arrestare nel 2018 per corruzione. Per riassumerla con le parole di Palamara: «Nel giorno del mio massimo successo, il “Sistema”, con la faccia gentile di Pignatone, mi annuncia che sono arrivato al capolinea».
«L’equivoco di fondo»
Ecco dunque che si invertono le posizioni. Pignatone, da maestro e «pezzo pregiato» del sistema, diventerebbe artefice con la sua inchiesta della caduta del padrone delle tessere. Passano quasi due anni tra la conversazione con Pignatone raccontata da Palamara e la successiva fuga di notizie e pubblicazione delle intercettazioni dal cellulare di Palamara.
Due anni che Palamara vive con la spada di Damocle di una inchiesta che potrebbe distruggerne la credibilità ma che non gli impediscono di giocare due partite fondamentali: la nomina di David Ermini alla vicepresidenza del Csm e soprattutto la successione alla procura di Roma di cui si discute all’Hotel Champagne. «Da un certo punto in poi il rapporto con Pignatone non ha più funzionato per un equivoco di fondo», ha raccontato Palamara alla presentazione del libro. L’equivoco avrebbe riguardato proprio la successione dopo il pensionamento di Pignatone.
Le intercettazioni dell’hotel Champagne pubblicate indebitamente scoperchiano il vaso di Pandora del “mercato delle nomine”, facendo saltare la nomina ormai quasi fatta di Marcello Viola. L’allusione è chiara: Palamara salta nel momento in cui scavalca Pignatone nella scelta del suo successore. Pignatone vorrebbe che il nuovo procuratore agisca in continuità e il nome sarebbe quello del suo braccio destro, Michele Prestipino (che nel 2020 diventa effettivamente procuratore capo).
Palamara, invece, vorrebbe giocare da solo la partita e nominare un nuovo procuratore capo più controllabile, perché scelto con la logica spartitoria che lui governa. Un procuratore capo che avrebbe per le mani anche l’inchiesta su Centofanti, in cui Palamara risultava implicato.
Così emerge il disegno che Palamara oggi usa per difendersi: il “sistema” si sarebbe attivato contro di lui, che fino ad allora era stato più strumento che burattinaio, quando si mette in testa di determinare le sorti della procura più importante d’Italia contro il volere di chi fino ad allora la aveva retta.
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