Care lettrici, cari lettori

ci avviciniamo a grandi passi verso la fine di questo 2024 in un clima di grande incertezza e contrapposizione: la riforma della giustizia al suo primo passaggio d’Aula e lo scontro tra toghe e politica.

La settimana è stata caratterizzata dalla nomina dei nuovi sette sostituti in Procura nazionale antimafia, su cui il Csm si è diviso con un forte contrasto tra gruppi associativi su cui trovate un approfondimento.

Dalla Francia, invece, è arrivata la condanna nel processo che ha sconvolto il paese: Dominique Pelicot è stato condannato a vent’anni di carcere per aver drogato fino a rendere incosciente e ripreso la moglie per nove anni, mentre veniva stuprata da oltre cinquanta sconosciuti trovati sul web. Il caso, molto mediatico per decisione della vittima, ha sollevato un dibattito internazionale.

l’Anm ha deliberato lo sciopero

La magistratura associata ha ritrovato unità contro la riforma costituzionale della separazione delle carriere, ora però dovrà trovare la strada per contrastare nel modo più efficace il medesimo progetto di riforma diventato cavallo di battaglia del governo.

L’assemblea di domenica scorsa ha deliberato di «avviare immediatamente una mobilitazione culturale e una sensibilizzazione dell'opinione pubblica sui pericoli di questa riforma, che, sia a livello centrale che locale, si articoleranno in diverse iniziative», «l'immediata istituzione di un comitato operativo a difesa della Costituzione aperto all'avvocatura, all'università, alla società civile, indipendente da ogni ingerenza politica, anche in vista di una possibile consultazione referendaria, per far conoscere alla cittadinanza i pericoli derivanti dalla riforma» e «l'organizzazione di almeno una manifestazione nazionale da svolgersi in un luogo istituzionale significativo subito dopo l'eventuale approvazione in prima lettura della proposta di riforma» e «la proclamazione di una o più giornate di sciopero».

Il mantra, dopo l’assemblea straordinaria, è: «Dobbiamo spiegare». 

I magistrati, infatti, sanno di muoversi su un crinale sottile. La categoria avverte l’impellenza di avversare una riforma che viene considerata vessatoria ma c’è la consapevolezza del rischio che la protesta venga considerata un capriccio della categoria in opposizione al governo. 

Del resto, la paura che nessuno si nasconde è quella di replicare il fallimento dello sciopero del 2022 contro la riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario, con una adesione appena del 48,5 per cento e picchi negativi nei grandi tribunali (a Roma il 38 per cento, il 36 per cento a Milano).

Le nomine in Dna dividono il Csm

Dopo un lungo dibattito in plenum, il Csm è arrivato al voto sulle nuove nomine per i sostituti in Procura nazionale antimafia, retta da Gianni Melillo.

Alla fine il voto ha portato a otto candidati con la stessa valutazione, mentre i posti vacanti sono sette. Per questo la pratica è tornata in commissione per il coordinamento della motivazione e a prevalere è il magistrato con la maggiore anzianità.

I nomi a parimerito di valutazione sono stati quelli di Ida Teresi, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, Paolo Sirleo, sostituto procuratore della Repubblica a Catanzaro, Antonio De Bernardo, pm a Catanzaro, Federico Perrone Capano, sostituto procuratore a Bari e Stefano Luciani, sostituto procuratore a Roma – sostenuti all’unanimità; quelli di Eugenio Albamonte, sostituto procuratore a Roma, e Antonella Fratello, sostituto procuratore a Napoli indicati invece nella proposta A (votata da Area e Magistratura indipendente) e quello di Giovanni Musarò, sostituto procuratore a Roma, indicato nella proposta B che invece aveva il sostegno di Unicost.

La decisione dovrà essere confermata dalla Terza commissione, tuttavia secondo un criterio di anzianità di servizio a rimanere fuori dai sette sarà Stefano Luciani.

I nuovi membri della direzione nazionale antimafia saranno quindi Teresi, Sirleo, De Bernardo, Perrone Capano, Albamonte, Fratello e Musarò.

Il plenum si è diviso sul nome di Albamonte – ex segretario del gruppo di Area – e a sorpresa ha dato il massimo punteggio anche a Musarò, il sostituto che seguì il processo Cucchi che portò alla condanna dei carabinieri responsabili e l’inchiesta sui Casamonica, indicato dalla proposta minoritaria di Unicost.

Gli esiti hanno visto replicarsi, pur in modalità differenti, una convergenza che già era maturata nel voto sul testo unico sulla dirigenza giudiziaria: quella tra le toghe progressiste di Area e quelle conservatrici di Magistratura indipendente.

I civilisti sui giudici di pace

L’Unione nazionale delle Camere civili ha espresso forte preoccupazione per i ddl di riforma sulla magistratura onoraria, attualmente all'esame del Senato, con cui si prevede un ampliamento delle competenze dei giudici onorari di tribunale (Got) e dei viceprocuratori onorari (Vpo).

«La riforma, già approvata dalla Camera lo scorso 5 dicembre, rischia di compromettere la qualità della giurisdizione e il diritto dei cittadini a un equo processo». Il provvedimento, come sottolineato dagli avvocati civilisti, «attribuisce ai giudici onorari la possibilità di trattare e definire cause di rilevante valore economico e giuridico, come i procedimenti relativi a beni mobili di valore inferiore a 50mila euro e quelli sui risarcimenti per danni stradali fino a 100mila euro». In questo modo si introduce un doppio binario nella giustizia civile, «con i cittadini che vedrebbero le proprie controversie affidate a magistrati privi di un percorso formativo e selettivo paragonabile a quello dei magistrati togati».

Il rischio è di creare una giustizia a due velocità, con «un sistema che affida le controversie più delicate a magistrati togati, mentre le cause di valore economico anche rilevante verrebbero assegnate a giudici onorari. Una disparità che potrebbe portare a pronunce di qualità disomogenea e a un aumento dei ricorsi, allungando i tempi di definizione delle controversie».

Alberto Del Noce, presidente dell'Unione nazionale delle Camere civili, ha quindi chiesto il ritiro delle disposizioni contenute nel disegno di legge e si rende «disponibile a un confronto» con il Governo e con le Commissioni Giustizia di Camera e Senato. 

Il contributo unificato

«Dopo un lungo dibattito, si è arrivati a un punto sulla questione del contributo unificato.

La nuova disciplina contenuta in manovra finanziaria prevedeva inizialmente di subordinare l’accesso effettivo al diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti a un adempimento fiscale quantificabile, in base al valore della controversia, anche in diverse centinaia di euro, fino ad arrivare a 1686 euro per cause di valore superiore a 520mila euro.

Dopo l’interlocuzione con il Consiglio nazionale forense, il ministero è intervenuto e la Commissione Bilancio della Camera ha trovato un accordo sul nuovo testo: per scongiurare l’estinzione della causa sarebbe stato sufficiente pagare solo un acconto pari a 43 euro. L’intesa ha così semplificato il pagamento e razionalizzato le procedure di recupero del gettito erariale, nel rispetto delle tutele costituzionali che garantiscono l’accesso alla giustizia. Ora la Manovra passa all’Aula.

«Resta comunque fermo l’impegno assunto dal dicastero della Giustizia nell’individuare un altro veicolo normativo per introdurre le ulteriori disposizioni in materia di contributo unificato, già condivise con l’istituzione forense, volte alla riduzione in misura percentuale degli attuali importi dovuti, nei casi di comportamento virtuoso nell’assolvimento dell’obbligo tributario», si legge nel comunicato del ministero.

In diversa direzione si è mosso Ocf, che in un comunicato ha rivolto un appello: «Sebbene si sia evitata la prospettiva più estrema, che avrebbe subordinato la stessa esistenza del processo al pagamento immediato del contributo integrale, il compromesso raggiunto solleva gravi interrogativi sul rispetto del principio costituzionale sancito dall'articolo 24 della nostra Carta, che garantisce a ogni cittadino il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi», si legge in una lettera inviata a Nordio e a tutti i parlamentari che solleva dubbi di costituzionalità sulla previsione normativa.

La Consulta sul rito abbreviato

La Corte costituzionale ha stabilito con la sentenza numero 208 che il condannato in esito a un giudizio abbreviato che non abbia proposto impugnazione deve poter essere ammesso alla sospensione condizionale e alla non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando per effetto della diminuzione di un sesto prevista dalla "riforma Cartabia" la pena inflittagli non superi i due anni di reclusione.

La pronunca nasce da una questione sollevata dal Gup del tribunale di Nola sulla nuova disciplina introdotta dalla riforma. Una persona condannata, con rito abbreviato, a due anni e quattro mesi di reclusione aveva rinunciato all'impugnazione, ottenendo così l'ulteriore sconto di un sesto della pena ora previsto dal nuovo comma 2-bis dell'articolo 442 del codice di procedura penale. Il giudice dell'esecuzione aveva quindi ridotto la pena a un anno, undici mesi e dieci giorni di reclusione. Il condannato aveva però anche chiesto al giudice i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, che in via generale possono essere concessi quando la pena concretamente inflitta resti al di sotto del tetto di due anni di reclusione.

In conformità al principio costituzionale della finalità rieducativa, il legislatore ha previsto in generale che le pene detentive non superiori a due anni possano essere sospese. Ciò deve valere, ha ritenuto la Corte, anche quando la determinazione finale della pena costituisca il risultato degli sconti di pena stabiliti dal legislatore in cambio di scelte processuali.

La Corte costituzionale ha quindi dichiarato costituzionalmente illegittima la mancata espressa previsione della possibilità per il giudice dell'esecuzione di concedere i due benefici, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perchè la pena originariamente determinata era superiore ai relativi limiti di legge.

La Corte europea sulle società di avvocati

«La partecipazione di investitori puramente finanziari in una società di avvocati può essere vietata», ha stabilito con una sentenza la Corte di Giustizia dell’Ue, e tale restrizione della libertà di stabilimento e della libera circolazione dei capitali «è giustificata dall'obiettivo di garantire che gli avvocati possano esercitare la loro professione in modo indipendente e nel rispetto dei loro obblighi professionali e deontologici».

Il caso nasce da una società di avvocati tedesca, la Halmer Rechtsanwaltsgesellschaft, che ha impugnato una decisione dell’Ordine forense di Monaco di Baviera, del 9 novembre 2021, che ne ha disposto la cancellazione dall’albo perchè una società a responsabilità limitata austriaca ne ha acquisito alcune quote sociali a fini puramente finanziari. 

© Riproduzione riservata