Il segretario di Md spiega così la ragione per cui il suo gruppo corre in autonomia rispetto ad Area: «Il dibattito interno ad Area mi pare caratterizzato da un dirigismo, alimentato da logiche maggioritarie in cui l’aggregazione del consenso subisce l’influenza di alcuni potentati elettorali regionali. Tradotto: ci sono regioni in cui l’elezione si eredita».
Le elezioni per i membri togati del Csm del 18 e 19 settembre inaugurano una nuova stagione: la nuova legge elettorale approvata con la riforma dell’ordinamento giudiziario ha modificato le dinamiche elettorali, in parallelo si è rotta l’alleanza tra i gruppi associativi progressisti di Area e Magistratura democratica, che dal 2010 si presentavano uniti. A spiegare la scelta e le prospettive future è Stefano Musolino, segretario di Md.
Cosa ha fatto maturare la scelta di questa divisione?
Il recupero della nostra autonomia da Area è la naturale e non conflittuale conseguenza delle differenze, sempre più marcate, sulle modalità di gestione dei rapporti interni al gruppo e sulle prospettive future. A me pare che Area si sia mossa assecondando una logica maggioritaria e corporativa, senza fare adeguatamente i conti con la questione morale sollevata dal caso Palamara. Nonostante queste distanze e privilegiando alcune visioni comuni, prima delle elezioni, abbiamo proposto un’alleanza per individuare insieme i candidati dei collegi maggioritari, correndo separati in quelli proporzionali. Area ha rifiutato e noi ne abbiamo preso atto.
Con quale logica vi siete mossi per individuare i candidati di Md?
La faticosa esperienza giurisdizionale è la cifra identificativa della qualità politica dei nostri candidati. E’ proprio nel loro concreto modo di esercitare la funzione, infatti, che hanno dimostrato di essere espressione della sensibilità interpretativa che caratterizza il nostro gruppo. Ma nonostante l’impronta individualista della legge elettorale, il loro percorso ed il nostro programma sono frutto di un’idea collettiva della giurisdizione, coltivata nel confronto ed aperta alla contaminazione.
Cosa non vi ha convinto, invece, delle scelte di Area?
Il dibattito interno ad Area mi pare caratterizzato da un dirigismo, alimentato da logiche maggioritarie in cui l’aggregazione del consenso subisce l’influenza di alcuni potentati elettorali regionali. Tradotto: ci sono regioni in cui l’elezione si eredita. Guardiamo con preoccupazione a questi metodi che caratterizzano anche l’aggregazione del consenso di Magistratura Indipendente, perché li si annidano i semi che hanno originato la crisi emersa con la vicenda di Palamara.
Il segretario di Area, Eugenio Albamonte, ha auspicato che vi ritroviate in futuro.
Il fatto che ci siano differenti valutazioni non preclude future prospettive comuni; e non solo con Area, ma anche con altri gruppi associati ed alcuni dei candidati indipendenti. Non è più il tempo di muoversi in una logica di appartenenza solidale tra gruppi associativi che rincorrono gli schemi del passato. Registro nella magistratura una fibrillante e sana voglia di partecipazione, foriera di nuovi modi di interpretare l’associazionismo giudiziario che possono travolgere gli schemi noti ed essere la linfa di una autoriforma culturale di cui abbiamo un gran bisogno.
A proposito dei candidati indipendenti, alcuni gruppi hanno mostrato perplessità sul fatto che lo siano realmente o se invece non vengano da gruppi di potere.
Mi sembra che a parlare sia soprattutto la preoccupazione dei gruppi maggioritari di perdere il controllo sulle elezioni e di vedere destabilizzati i comodi schemi associativi del passato. L’ampliamento del numero dei candidati e tra questi di molti indipendenti è un fattore di novità che fa bene al dibattito interno alla magistratura. Questo non mi impedisce di percepire che alcuni indipendenti siano sostenuti da sottogruppi interni ad altri gruppi. Ed intuisco che alcuni di questi siano sponsorizzati da protagonisti della stagione degli scandali, tra cui un noto politico già magistrato. Ma tutto è molto leggibile ed io mi ostino a pensare che i magistrati voteranno sulla base dei programmi e della credibilità dei candidati, piuttosto che sulle rassicurazioni dei potentati elettorali. Io credo che tutti i gruppi associati debbano manifestare una maggiore fiducia nelle capacità critiche della magistratura e fare una campagna elettorale coerente con questo investimento di fiducia.
Quindi l’aumento del numero di candidati è un bene?
Certo, anche se un sistema puramente proporzionale avrebbe eliminato molte storture. Veniamo da una elezione del 2018 in cui per i 4 posti di magistrati requirenti c’erano 4 candidati. Oggi tutti i posti sono contendibili e c’è una magistratura giovane che non è facilmente catalogabile negli schieramenti storici, che voterà in base alla qualità delle proposte e dei candidati che le interpretano. Dentro la magistratura c’è una voglia di partecipazione che sembrava sopita e che spaventa i custodi dei vecchi schemi associativi.
Nessuna preoccupazione, quindi?
Alcuni candidati continuano a fare campagna elettorale tra cene, apericene e promesse da marinai. Questo mi preoccupa perché sono i metodi che stavano alla base delle degenerazioni che hanno portato agli scandali del passato: un’aggregazione elettorale fondata su forme di solidarietà personale, piuttosto che sulla condivisione di un progetto. Tuttavia, è un fenomeno che riscontro tra i candidati proposti dai gruppi associati, piuttosto che tra gli indipendenti.
Gli scandali a cui lei si riferisce sono analizzati e risolti?
I conti con la questione morale della magistratura non sono ancora stati fatti del tutto. Il carrierismo è rimasto un male che serpeggia al nostro interno ed è tra le ragioni di fondo che hanno provocato la degenerazione dei gruppi associati. Per questo ritengo che vada rilanciato un dibattito sulla politica giudiziaria che permetta di confrontarsi fuori dai recinti noti. La pluralità di candidature, da alcuni percepita come una forma di pericolosa frammentazione, è, in realtà, un segno di ricchezza, perché esprime una voglia di mettersi in gioco che è la prima risposta utile ad uscire dalla crisi.
Il funzionamento del disciplinare nel Csm attuale è stato molto criticato, perché troppo prudente. Lei come la pensa?
Non credo che il disciplinare sia lo strumento attraverso cui si risolvano i problemi culturali e strutturali che stanno al fondo della crisi; per rilanciare l’autoriforma della magistratura servirebbe un’operazione verità in cui si è poco impegnata anche l’ANM, alla luce del segreto imposto all’attività dei probiviri. Se, invece, il tema del dibattito diventa implementare le sanzioni, rischiamo di nascondere sotto il tappeto del disciplinare i problemi che hanno generato la crisi.
Una parte della magistratura ritiene che, per chiudere la questione del cosiddetto mercato delle nomine, sia necessario irrigidire le regole del Csm in modo da renderle prevedibili e non aggirabili con meccanismi clientelari. Condivide?
Assolutamente no. Per rilanciare l’autorevolezza della magistratura, il Csm deve essere sempre meno organo burocratico e sempre più organo di politica giudiziaria. Non dobbiamo avere timore di fargli esercitare la discrezionalità che è un onere insito al suo ruolo costituzionale. Dobbiamo avere fiducia nel fatto che il Consiglio sappia esprimere, con autorevolezza, scelte discrezionali trasparenti, intelligibili e rendicontabili.
Eppure molte nomine finiscono annullate dai giudici amministrativi, proprio perché troppo discrezionali.
E’ accaduto il contrario. E’ l’eccessiva regolamentazione, figlia della più recente paura di esercitare responsabilmente la discrezionalità, che ha generato l’iperattivismo della giurisdizione amministrativa sui provvedimenti del Csm. Ed è l’indebolimento dell’autorevolezza istituzionale del CSM, conseguente all’irrigidimento delle regole, che ha ingigantito il ruolo del giudice amministrativo. Ma questa è patologia costituzionale. La fisiologia, infatti, assegna all’autorevolezza discrezionale del CSM l’onere dell’autogoverno della magistratura, non al giudice amministrativo. Noi crediamo che il nuovo CSM debba ripristinare la fisiologia dei rapporti e crediamo che rinunciare ad un esercizio comprensibile e responsabile della discrezionalità da parte dell’autogoverno, sia una mortificazione che la magistratura non merita.
Quale è il male vero che ancora non è stato combattuto del tutto?
Lo sfrenato carrierismo frutto della riforma Castelli. Le faccio un esempio: un magistrato come me che con 25 anni di anzianità nella magistratura, continua a fare il sostituto, nella percezione diffusa non è un modello di riferimento perché non ha ancora occupato un posto direttivo. Questo è il pericoloso veleno culturale inoculato da quella riforma che pure ha dato ottimi frutti iniziali, perché ha consentito una rivoluzione nella dirigenza, portando alla direzione degli uffici molti giovani magistrati, dotati di innovative capacità di organizzazione.
Come è nato il cortocircuito allora?
L’entusiasmo per una nuova classe dirigente ha portato tantissimi a ritenersi idonei a quello scopo, ma accanto a questo vi è stata anche la tentazione della fuga dai fascicoli, a cagione di un lavoro sempre più usurante e poco gratificante, con crescenti carichi di impegni e responsabilità, uniti a pretese di rese produttive inconciliabili con un’attenta valutazione dei diritti coinvolti in ciascun procedimento. Si è, quindi, scatenata una corsa alla dirigenza che doveva essere fondata sulle referenze archiviate nei fascicoli personali dei magistrati. Tuttavia, la gran parte di questi erano ricchi di enfatici, quanto evanescenti giudizi, piuttosto che di fatti ed argomenti di valutazione; sicché, la competizione si è spostata sul piano della conoscenza personale del decisore, con la progressiva espansione del metodo clientelare e del ruolo dei potentati elettorali che, coltivando quei metodi, hanno inquinato anche i gruppi associati.
Quale è la soluzione?
Insieme ad un dibattito culturale che rivaluti il senso e la passione per il nostro lavoro, mi pare utile puntare a valutazioni di professionalità che diano conto delle reali qualità dei magistrati, redatte anche con verifiche incrociate e contributi esterni. Vanno, poi, introdotti sistemi che ostacolino carriere parallele e permanenti nella dirigenza senza, tuttavia, perdere di vista l’importanza di formare dirigenti adeguati e di riconoscerne il valore. Ed infatti, la recente scarsità di domande per alcuni posti dirigenziali, anche di rilievo, è un sintomo preoccupante che va considerato nelle analisi rimesse al prossimo CSM.
Attualmente è in corso anche la campagna elettorale politica e la giustizia è uno degli argomenti. Il dibattito è all’altezza?
Non mi pare chiaro quale sia l’orizzonte prospettico delle varie proposte, al fine di garantire qualità ed efficienza alla giurisdizione. In disparte dal desiderio di rivincita nei confronti della magistratura che si legge in filigrana in molte di quelle proposte, la giustizia sembra ancora il terreno degli slogan semplicistici, più che delle soluzioni ragionate. Le proteste per i deludenti esiti delle riforme Cartabia, dicono che la magistratura rifiuta un ruolo meramente burocratico, ispirato dall’efficientismo aziendalista. Questa consapevolezza della rilevanza costituzionale del nostro ruolo nella tutela dei diritti e la passione manifestata nel rivendicarlo è un tesoro che la politica dovrebbe tutelare e coltivare.
Il prossimo Csm entrerà in funzione quando verranno nominati i laici. Concorda con il fatto che sia necessario attendere l’elezione del nuovo parlamento per nominarli?
È un ritardo oneroso, ma credo necessario. La stessa autorevolezza del prossimo CSM sarebbe pregiudicata da nomine effettuate da un Parlamento non più politicamente legittimato. Le nomine dei cd. laici, infatti, introducendo nell’autogoverno la prospettiva esterna sono essenziali al fine di vincere la tentazione della autoreferenzialità. La mia speranza è di avere una componente laica di grande qualità, in modo che il Csm possa fare sintesi alta delle varie sensibilità che vi saranno rappresentate, dentro un dibattito scevro da pregiudizi.
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