Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha fatto ogni sforzo per argomentare che la sua riforma della giustizia – la separazione delle carriere delle toghe e lo smembramento del Csm – non è quella di castigare le toghe. A smontargli la narrazione, però, ci ha pensato direttamente la Giorgia Meloni.

La linea della magistratura associata, con l’Anm pronta a proclamare lo sciopero, è quella di denunciare una «volontà punitiva» da parte del governo, e la premier con la sua intervista a Dritto e rovescio ha fornito tutti gli elementi per avvalorare la tesi. La scelta non appare un caso, una di quelle occasioni in cui – come hanno spiegato i suoi – Meloni va in «trance agonistica» e le scappa la frizione. Durante la conversazione con Paolo Del Debbio, infatti, la premier ha usato un armamentario preciso che con la riforma aveva poco a che vedere, con esempi circostanziati degni di un’attenta conoscitrice delle dinamiche interne alle toghe.

Meloni ha parlato di volontà di «garantire la terzietà del giudice», e fino a qui tutto è rimasto nell’alveo di una legittima posizione in materia di separazione delle carriere. Però, quando ha parlato del Csm, ha elencato quattro accuse circostanziate e solo collateralmente connesse alla riforma, puntando il dito contro i pm di tre procure – Milano, Torino e Genova – come esempi negativi di professionalità e contro la sezione disciplinare del Consiglio.

«Mi piacerebbe, in futuro, non solo per Giovanni Toti, ma per qualsiasi italiano, che tra quando viene formulata una richiesta di misure cautelari e quando viene eseguita, non passassero mesi per poi magari eseguirla guarda caso in campagna elettorale», è stata l’accusa contro gli uffici giudiziari genovesi che stanno indagando sul presidente della regione.

Poi la bordata ha toccato Milano, dove «il pm che occultava le prove a favore dell’Eni non è mai stato punito», ha detto riferendosi a Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, oggi sotto processo a Brescia per rifiuto d’atti d’ufficio nella gestione del fascicolo Eni-Nigeria. In realtà, la prima conseguenza in capo a De Pasquale è stata la sua mancata conferma nell’incarico di procuratore aggiunto a Milano proprio a causa delle vicende legate all’Eni, mentre il processo di primo grado è ancora in corso.

Per Torino, invece, l’accusa è di inerzia in merito al caso della preghiera islamica tenuta da un imam dentro l’università invocando il jihad. «Mi auguro ancora di avere uno stato che fa rispettare le regole» e «mi aspetto che ci sia qualche magistrato che si occupi di questa persona». Tuttavia – al netto di eventuali implicazioni penali – l’imam ha ricevuto una diffida della questura, per impedire altre preghiere in ateneo.

L’ultimo colpo viene sparato contro il Csm, in particolare la sezione disciplinare, e anche in questo caso Meloni cita un caso poco noto ai più: «C’è un giudice che durante una festa si è fatto baciare i piedi da un avvocato che poi è diventato suo imputato al processo. Non c’è stato un provvedimento disciplinare verso questo giudice». La vicenda è avvenuta a Bari nel 2016 e riguarda una fotografia pubblicata dal Giornale in cui appare l’avvocato di uno degli imputati, che simula di baciare i piedi della pm di Trani che indaga su un disastro ferroviario. Lo scatto, risalente a tre anni prima dell’indagine, aveva indignato i parenti delle vittime. Anche in questo caso Meloni ha dato informazioni inesatte: la pm Simona Merra, infatti, ha avuto parere negativo alla valutazione di professionalità e non è stata promossa, inoltre è stata sanzionata con la censura a causa della mancata astensione, vista l’amicizia con l’avvocato.

Contro il Csm

Al netto delle imprecisioni, la premier ha fatto emergere come l’obiettivo della riforma non sia tanto la separazione delle carriere, quanto lo smembramento del Csm. Con il sorteggio «liberiamo la magistratura dal problema delle correnti politicizzate», e con l’Alta Corte si renderà effettivo anche il disciplinare, «perché è accaduto che i magistrati in moltissimi casi, anche di fronte alle questioni più macroscopiche, non venissero mai fatti oggetto di decisioni disciplinari».

Insomma, il Csm va rimodellato perché è piegato a logiche spartitorie e lassista nel controllo. Accuse pesanti che galvanizzano l’elettorato di centrodestra ma – nell’enfasi della campagna elettorale – dimenticano un elemento: il vertice del Csm in tutte le sue funzioni – sia di nomina sia disciplinare – è il Colle. Ogni accusa di malfunzionamento, dunque, risuona come rivolta indirettamente al capo dello Stato.

Finita la campagna elettorale in cui i toni belligeranti sono la norma, la riforma costituzionale della giustizia partirà – secondo le prime indiscrezioni – dalla Camera. La premier è apparsa molto a suo agio nell’intestarsela, e l’interrogativo, ora, è con quale forza verrà portata avanti in parlamento.

C’è la possibilità che la riforma della giustizia possa passare più agevolmente rispetto a quella del premierato, che pure è la prima rivendicazione di Fratelli d’Italia. L’iter parlamentare è lo stesso: doppio passaggio a Camera e Senato e possibile referendum nel caso in cui non ci sia la maggioranza dei due terzi. La riforma Nordio, poi, non è blindata e potrebbe avere un lungo iter in commissione per emendare il testo. Tuttavia – a differenza del premierato – sulla giustizia il centrodestra ha già la sponda di Italia viva e Azione, e astrattamente basterebbero un’altra manciata di voti per scongiurare la consultazione popolare, che invece è certa nel caso del premierato. Sulla carta la riforma ha quindi concrete possibilità di successo, se non si incaglia in lungaggini. Dopo toni così alti, Meloni dovrà dimostrare di essere davvero disposta allo scontro con la magistratura associata, che ha voluto provocare in favore di telecamera.

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