La serie sulla detective non vedente racconta la disabilità rifuggendo ogni tipo di sentimentalismo. È una delle chiavi del suo successo, insieme ad altre scelte innovative fatte dalla produzione
Con un ascolto medio che si aggira stabilmente intorno ai quattro milioni di spettatori, la serie tv Blanca è uno dei fenomeni televisivi più interessanti di questo scorcio di stagione. Seppur senza riuscire, per il momento, a raggiungere gli ascolti del fortunato esordio dell’autunno di due anni fa, quando sfiorò i sei milioni per l’episodio finale della prima stagione, la serie (di nuovo in onda dal 5 ottobre scorso con la seconda stagione) si conferma nella sua capacità di generare discorsi, di stimolare empatia e affettività verso i personaggi, di consentire a Raiuno di vincere agevolmente la serata del giovedì.
Blanca Ferrando è una stagista della polizia di stato, promossa al grado di consulente all’inizio della seconda stagione, con tanto di encomio del presidente della Repubblica; è cieca dall’età di 12 anni, quando rimase ferita nel corso di un incendio nel quale perse la vita la sorella più grande (un femminicidio a tutti gli effetti). Una tragica fatalità che si trasforma in potenziale risorsa: privata della vista, Blanca riesce a spingere gli altri sensi dove nessuno sa arrivare. Ascoltando, annusando e toccando, la giovane aspirante detective diventa alleata preziosa e insostituibile del commissariato San Teodoro di Genova, cuore nevralgico della narrazione.
Prodotta da Lux Vide, la casa di produzione di Luca e Matilde Bernabei punto di riferimento nel consolidamento dell’immaginario della fiction nazionale (da Don Matteo a Un passo dal cielo, da Doc – Nelle tue mani a Diavoli), la serie Blanca è un classico esempio di poliziesco dai toni soft che caratterizza larga parte della proposta di genere del servizio pubblico: coabitazione tra casi di puntata e plot orizzontali, una figura femminile al contempo fragile e carismatica come protagonista, venature da commedia che puntellano storie di crimine, una linea mélo-sentimentale che attraversa e tormenta le relazioni tra i personaggi, un’ambientazione definita e riconoscibile.
Niente sentimentalismi
Insomma, Blanca ha tutti i tasselli della fiction targata Rai al posto giusto. Eppure, nell’insieme, spicca per essere una serie di rottura, capace di innovazioni profonde, tanto sul piano produttivo quanto su quello estetico e narrativo. Sono almeno quattro le ragioni che spiegano il successo di Blanca, reso ancor più efficace e sorprendente se consideriamo il fatto che la prima stagione sembrava aver esaurito e saturato il proprio arco narrativo con la risoluzione del mistero della morte della sorella Beatrice.
In primo luogo, la serie affronta il tema della disabilità fisica da una prospettiva che rifugge il sentimentalismo. La magistrale interpretazione di Maria Chiara Giannetta (nella seconda stagione ancora più verosimile nel riprodurre sguardi, movimenti e atteggiamenti da ipovedente, sempre accompagnata dal fedele cane Linneo) restituisce il profilo di una donna solare, ironica, battagliera. Imperfetta nei suoi sentimenti, che ha il diritto di amare, sbagliare, lavorare al pari dei colleghi.
Non c’è nulla di compassionevole nella disabilità di Blanca; non siamo di fronte a una “diversità” che si surroga attraverso improbabili “superpoteri”, ma piuttosto a un inedito mix di istinto e razionalità, di sensorialità aumentata e metodi tradizionali da profiler da serialità internazionale.
Nella parabola di Blanca leggiamo il potere di un’opportunità diffusa e aperta, ma anche un’umana seconda possibilità da concedere a chiunque s’incontri sul proprio cammino; alla madre che l’aveva abbandonata e torna sotto mentite spoglie fingendosi una colf; a Sebastiano, che dopo aver tentato di ucciderla al termine della prima stagione viene accolto in casa; alla piccola Lucia, una ragazzina orfana a cui Blanca si affeziona e per la quale si batterà pur di toglierla dall’istituto religioso a cui è stata data in affido.
Scelte stilistiche
C’è poi una precisa scelta registica e stilistica che segna uno scarto rispetto ad altri prodotti simili della serialità nazionale di Raiuno: la regia di Jan Maria Michelini (nella seconda stagione in coppia con Michele Soavi) azzarda accorgimenti inediti per tentare di restituire l’unicità e la complessità dei metodi della detective; l’amplificazione dei suoni, dei rumori e degli odori, così come le percezioni della realtà dal punto di vista della cecità della protagonista assumono contorni spiazzanti, dove i colori parlano il linguaggio del vuoto e dell’assenza, dove le tinte si fronteggiano per disegnare gli universi che Blanca è costretta a vivere, amplificare e razionalizzare per trovare una via di fuga verso la “normalità”, dove gli split screen (lo schermo diviso in due o più sequenze) fornisce ritmo e vitalità al racconto.
Quando la detective si concentra su un particolare sonoro, la regia agisce per sottrazione, ponendola al centro di una stanza nera e trasportandoci nel suo mondo immaginato. La serie è anche la prima al mondo a utilizzare la tecnica dell’olofonia, che permette di ricostruire un suono esattamente come è percepito dall’udito dell’essere umano. Ciò aiuta lo spettatore a immedesimarsi nella mancanza di Blanca e nella sua attività di décodage, l’ascolto analitico dei materiali utili alle indagini.
Azzeccare la distribuzione
Una terza ragione che spiega il successo di “Blanca” riguarda le scelte di distribuzione. Già capace di circolare al di fuori dei confini nazionali (è andata in onda, tra gli altri, in Spagna e in Francia su due canali commerciali), dopo il primo passaggio in Rai la serie è stata resa disponibile su Netflix per il pubblico italiano, contribuendo a tenere viva l’attenzione in vista del secondo atto e intercettare un pubblico differente.
Una scelta che, per restare in casa Rai, è stata effettuata anche con il teen drama Mare fuori e che ha aiutato a consolidare il brand anche presso i cataloghi delle piattaforme, giungendo così alla seconda stagione forte di una discorsività rimasta pressoché stabile ed elevata.
Genova totalizzante
Infine, a contribuire al fenomeno “Blanca” c’è il lavoro fatto dalla produzione e dalla sceneggiatura sulle location. Sebbene i romanzi di Patrizia Rinaldi, a cui la serie si ispira, siano ambientati a Pozzuoli, la produzione ha scelto sin da subito un’ambientazione differente, puntando su Genova e la riviera ligure. Ma è una Genova ambigua e totalizzante quella che fa da sfondo alla narrazione. Non c’è solo la cartolina del porto antico, della spiaggia di Boccadasse o degli scorci di Camogli (dove è collocata la casa della protagonista), ma assistiamo a un autentico viaggio immersivo nelle contraddizioni della città, nei suoi tic e nelle sue manie, nei suoi gioielli nascosti e nelle spigolosità urbanistiche e simboliche dei quartieri e delle periferie: l’oscurità avvolgente dei caruggi, le chiese e i palazzi storici (dalla cattedrale di San Lorenzo al parco di Villa Durazzo Pallavicini), il borgo di Dolceacqua a Ponente e l’Abbazia di San Fruttuoso a Levante.
Grazie anche al lavoro di mediazione della Genova Liguria Film Commission, i luoghi sono tratteggiati con il rigore del dettaglio, alimentati da personaggi di contorno che appaiono pienamente radicati (dall’ispettore Liguori al vicequestore Bacigalupo) e tradiscono accento e origini. Il terzo episodio della seconda stagione ha come snodo cruciale lo stadio Ferraris nel mezzo di una partita della Sampdoria, con una consapevolezza non scontata del peso che la rivalità tra le due sponde calcistiche ha nel descrivere la città e le sue stratificazioni. Blanca estrae sapientemente l’anima del luogo; non come uno spot, ma come un racconto vivido che sa trarre il meglio non solo dalle luci, ma anche dalle ombre.
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