Sappiamo dal Calvino de Le città invisibili che Genova è la città che contiene in sé tutte le città del mondo. Sappiamo dai numeri alcune cose essenziali: che ha il maggiore numero di anziani d’Europa e quindi il tasso di natalità di gran lunga più basso a livello nazionale, che ha altissime ricchezze paralizzate da decenni dentro investimenti immobiliari ma anche in liquidità, e sono solo di poche famiglie (alcuni sono patrimoni che arrivano dal Cinquecento).

Sappiamo che per 30 anni è stata la Liverpool italiana, con tassi di disoccupazione che per anni sono stati pari al sud nazionale. Sappiamo che qui, a partire dalla metà degli Ottanta, il tempo si è fermato (fatta salva l’apertura al mare dell’Expo 1992 che portò un blockbuster come l’Acquario, l’amministrazione di Pericu che si beccò nel 2001 il G8 e non aggiungiamo altro).

Il romanticismo d’accatto la vuole autentica e zozza e per questo ama il gigantesco centro storico della città, altro caso classicamente marittimo, dove l’immigrazione ha trovato casa da decenni – nel pieno cuore della città, non ai margini – e dove in via San Lorenzo per dire decine di migliaia di turisti dai mille colori fluo sbarcano dalle navi (da poco) di crociera per fare una bella vasca. A questo si aggiunge il turismo branché che ha già scoperto Genova da tempo.

Tante, non una

Ma la città, anche sulla mappa, non è quella. L’abbiamo detto. Sono tante, non una. Esiste, oltre a quella haussmanniana ottocentesca, la Genova degli anni Cinquanta/Sessanta che ha operato una folle colata di condomini (sempre rosa/giallino/arancione pallido), portando gente immigrata dal Sud per il lavoro offerto dalle molte aziende di stato planate qui. Sono geometrie sconosciute.

Vedi il classico falansterio orizzontale anni Sessanta – il “Biscione” di Daneri oggi riscoperto da giovani architetti per i loro studi poverty-chic, ma con grande vista sul golfo, dall’alto delle colline. Stessa cosa per l’ondata successiva, quella completata tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta. La più incredibile: quella del cemento duro, dove sono stati deportati gli abitanti del centro storico originario verso inutili macchine ad abitare igieniche ma sradicate di umanità. Enormi cornicioni alti decine di metri, striati di cemento, ora friabilissimo. Una tragedia che è annunciata, tanto quelle del Ponte Morandi . Genova è un pacchetto di “Pan di Stelle” pronto a squagliarsi se ci versi il latte sopra. Si pensava ad una città di due milioni di abitanti. Così diceva il piano regolatore postbellico del 1959. Si finì per costruire 800mila metri quadrati di cemento, acciaio e cemento.

Cultura straordinaria

Ora si arriva a malapena 550mila abitanti. Dentro queste geometrie fuori di testa fiorisce la straordinaria stagione culturale della città: non De André, ma (cito a caso) la macchina messa in piedi da Eugenio Battisti con una rivista eccellente come Marcatrè, il lavoro di Germano Celant (odiato o meno, qui si inventa letteralmente l’arte povera), la figura straordinaria di Edoardo Sanguineti fino agli interventi in strada di Laurie Anderson o Gordon Matta Clark (e al lavoro avant della galleria “Locus Solus”) e poi alla stagione teatrale sia ufficiale che off, con i licei andavano di mattina a vedere Carmelo Bene, al “Genovese”, per dire, che faceva Shakespeare. Al pazzesco amore per il cinema grazie al numero più alto e qualitativo di cineclub d’Italia e rassegne (per esempio l’impressionante Il Gergo Inquieto del 1979), a case editrici coraggiosissime come Costa&Nolan. Al punk e alla new wave e qui imperarono con azioni straordinarie (date un’occhiata a Genova 1981-1983 del fotografo Antonio Amato per vedere questa scena). La disoccupazione e la fine dell’èra d’oro del porto (e lo smosciamento della figura, politica e combattiva, del camallo) fecero il resto.

Forse, a mia memoria, la fine coincide con una grande rassegna sul Giappone contemporaneo nel 1985, dove vidi per la prima volta i volumi spieghettati di Issey Miyake, ma magari è una cosa sbagliata e fighetta.

Gli anni immobili

Da allora inizia il vuoto pneumatico – salvo pochi risvegli galvanici, vedi sopra) e il distacco nemmeno troppo lento dalla contemporaneità. Il tempo, dicevamo, si stoppa. Il ventennio berlusconiano di consumo selvaggio della classe media qui non arriva proprio. In superficie, qualcuno parlò di una città semivuota che risuonava «del rumore bianco della solitudine senile».

Un paradosso, questo congelamento – fatta salva la tragedia occupazionale per gli under 55 e ragazzi/e in genere – che ha prodotto il fascino immobile che ora sta iniziando a far muovere in modo puntiforme il mercato immobiliare (il metro quadro cittadino è sempre il più basso d’Italia ed è ancora crollato, con le case borghesi più ampie del paese, e con palazzi interi nobiliari vuoti che attendono da decenni astuti ricconi che li ramazzino).

Il Pnrr

E così Draghi ha individuato la città come la più bisognosa e interessante ed è arrivata la bomba Pnrr. I sei miliardi di euro sul porto per farne un bombardone in grado di competere pesantemente sul piano internazionale, con una megadiga in grado di accogliere le enormi navi del futuro, e conseguenti infrastrutture logistiche (dimenticavamo: una consistente pioggia di fondi era arrivata per il rifacimento del ponte Morandi, diventato un capolavoro assoluto di leggerezza e insieme solidità firmato da un Renzo Piano in assoluto stato di grazia).

Chiedo al gigante dell’analisi delle piattaforme territoriali, Aldo Bonomi, presidente del consorzio Aaster. «La città è in crescita. Per tre ragioni. Finalmente le reti e i flussi la stanno “bucando” la città (con un dubbio: esiste una potenzialità locale di autogoverno delle reti?). Poi c’è il polo di innovazione degli Erzelli, che sta sopra l’aeroporto. E infine, il porto che sta in rampa di lancio». Non solo. C’è il grano per il difficile completamento dell’alta velocità ferroviaria con Milano. 50 minuti di viaggio (al posto delle attuali 2 ore) che nell’inconscio stanno facendo percepire Genova come una specie di Venice/Santa Monica/Lisbona. Per questo fotografi, artisti, mover&shaker milanesi e internazionali stanno comprando grandi case in città, specie nella zona di Castelletto o in quella collinare e marina di Sant’Ilario, sopra Nervi. «Sta cambiando la composizione sociale della città», conclude Bonomi. È un movimento progressivo e continuo che va a vantaggio dei locali senza che questi abbiano mosso un dito. Non solo: il lungomare di corso Italia prenderà luce assoluta con il nuovo piazzale Kennedy che sta diventando una grande zona/parco verde di accesso ai 12 chilometri di Waterfront. Per questo la zona limitrofa della Foce è stata scelta da parecchi per piazzare in tempi rapidi dei nuovi caffè e ristorantini in quello che era un mezzo deserto urbano. I tassisti mi dicono che aumentano società milanesi che cercano uffici da quelle parti. Per finire, è stato dato anche il via al pazzesco tunnel sottomarino, che scorrerà proprio sotto il Waterfront, riducendo l’impatto dell’odiata Sopraelevata (in realtà fantastica, Godard l’ha chiamata il miglior piano sequenza mai visto).

Risveglio

Ah, manca una chicca: sotto Genova passerà il cavo per la connessione dati internet più importante del Mediterraneo, da qui l’importanza strategica del luogo. Una botta a più dimensioni, capirete bene. La cultura cittadina underground sta lentamente risvegliandosi. Dal basso, con collettivi artistici come quelli insediati a Palazzo Bronzo, e altre realtà spontanee. E con una programmazione musicale, per esempio, che questa estate è bella fitta. Dal groove sofisticato del festival “Transatlantica”, all’esplosione di qualità di “Goa Boa” appunto (con, tra gli altri, un concerto straordinario della Kim Gordon dei Sonic Youth, oltre ai Kraftwerk, e molti altri) alla cornucopia di avant-pop e elettronica di qualità di “Electropark”, che occupa luoghi mai utilizzati per questo della città (il museo Galata ma anche una piattaforma galleggiante di fronte alla perla del golfo di Rapallo, San Michele di Pagana).

L’estate sarà tempestata di proposta sonica generale forse mai vista. Sappiamo che la musica viene prima del resto (ma si era già capito da anni: l’inizio della trap viene da qui anni fa, con Tedua, Izi e altri, incluso il pop di Bresh). Bisogna per completezza dire quanto invece il sistema culturale “alto” versi invece in uno stato pericoloso, ma ne parleremo un’altra volta.

Tuttavia, se questa rete di ragno finalmente avverrà, siamo di fronte ad un caso di mutazione urbana sorprendente. Troppo, forse. Al punto che inizia a serpeggiante quasi una forma nostalgica per la palude precedente. Perché per qualche strano motivo, Genova ha delle similitudini alla Roma descritta dall’ottimo saggio di Valerio Mattioni, Remoria, che immaginava una battaglia scura di un Remo niente affatto morto rispetto al Romolo che si aggiudicò la vittoria. “La Superba”, nel pieno senso della parola, che ha radici in città dal tempo di Andrea Doria, è ancora lì. Austera e attentissima. Fatta di vegliardi cattivissimi (vedi la battaglia western di due ottantenni per il controllo della Carige, poi andata in altre direzioni). Fatta di gente rivierasca – non si può citare per esempio l’esplosione surf dell’attigua Recco, anche questa dal basso – altrettanto coriacea e conservatrice di ciò che esiste da sempre. Questo gigante spietato e niente affatto addormentato, che ha moltissimi addentellati in città, ad un certo punto si ergerà per certo, cercando di scrollarsi di dosso tutto questo. Vedremo.

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