La vergogna è il sentimento peggio distribuito a questo mondo. Si vergognano quelli che non ne avrebbero motivo, e non si vergognano quelli che dovrebbero. Si vergognano i bambini, non appena raggiungono una certa consapevolezza di sé. Si vergognano gli adolescenti, insicuri del proprio corpo. Si vergognano quelli che hanno un difetto fisico di cui non sono responsabili, quelli che si sentono troppo grassi o troppo magri, e non ne hanno nessuna colpa. Si vergognano i vecchi se non si sentono più capaci di fare le cose che facevano nel pieno delle forze. E invece non si vergogna il politico che va alle feste con la pistola in tasca, o che indossa magliette con la faccia di dittatori sanguinari, o che ignora di trovarsi in macroscopici conflitti di interesse. Chi si vergogna per buoni motivi non può essere fino in fondo una cattiva persona. Non può esserlo, perché la vergogna, quella giusta, quella vera, presuppone una coscienza delle proprie responsabilità e dei propri doveri, e una delusione per l’immagine che abbiamo dato di noi stessi venendo meno all’una e agli altri. La vergogna è un sentimento eminentemente sociale e morale, e come tale andrebbe accuratamente distinta da emozioni contigue, ma che non implicano un giudizio negativo sulla nostra condotta. L’imbarazzo per un gesto goffo o maldestro non dovrebbe essere ancora vergogna, e così non dovrebbe esserlo il pudore, che è limitato alla sfera corporea e sessuale, anche se in alcune lingue la differenza tra pudore e vergogna non c’è e se la stessa parola italiana “vergogna” viene da quella latina che indica innanzi tutto il pudore.

Lo sguardo dell’altro

Come sentimento sociale la vergogna richiede la presenza dell’altro, e più precisamente del suo sguardo. Se faccio qualcosa di indegno ma nessuno lo nota posso provare senso di colpa, ma non, a rigore, vergogna. Jean-Paul Sartre lo ha spiegato benissimo nell’Essere e il nulla. Mi metto a spiare qualcuno dal buco della serratura. Improvvisamente una persona entra nel corridoio e mi vede. È il suo sguardo a crocifiggermi alla mia vergogna, alla immagine di me colto a compiere un atto non solo sconveniente, ma vigliacco e umiliante.

Michael Fassbender nel film Shame di Steve McQueen è un giovane rampante che non sembra avere alcun problema a vivere i rapporti con le donne in modo predatorio e meccanico, ma che comincia a elaborare una reazione di vergogna quando il suo capo e la sorella scoprono che il suo computer è pieno di immagini porno. Proprio per la natura sociale e interpersonale della vergogna può accadere che si senta enormemente il peso di comportamenti aberranti che pure non sono nostri. Annie Ernaux, nel romanzo Vergogna, è annientata, all’inizio dell’adolescenza, dal dolore di una scena violenta tra i suoi genitori, che le svela in maniera inequivocabile l’inferiorità culturale e morale dell’ambiente in cui è cresciuta.

Uno sguardo mediatico

Data la sua natura di sentimento morale, la vergogna sembra fatta apposta per evocare l’idealizzazione del passato e la deprecazione del presente. “Non c’è più vergogna”, “Una volta si sarebbero vergognati”. Gabriella Turnaturi, in un libro di qualche anno fa, sosteneva che ormai siamo a una sorta di vergogna-fai-da-te, in cui l’unico motivo vero di disagio resta quello di aver recitato male la propria parte. La riflessione sulle trasformazioni della vergogna, sul suo affievolirsi e persino scomparire sono così frequenti che vale la pena di chiedersi se è davvero così.

Due libri diversi, una raccolta di racconti e un saggio, possono servire a cercare una risposta. I racconti sono quelli di Andrea Marchesini, Iniziazioni. Racconti di sette età (elliot, 2024). Sono tutti percorsi da un disagio sottile ma palpabile, da un non detto che riguarda in primo luogo un uomo alle prese con il sesso, in momenti diversi della vita. La vergogna percorre questi racconti sotterraneamente, ma fino a costituire una sorta di filo rosso che emerge talvolta in modo inaspettato. Nel racconto Conoscersi la fuga d’amore di due giovani che si sono appena incontrati, e che quindi dovrebbe essere vissuta all’insegna della spensieratezza e dell’abbandono, si incrina all’improvviso per una situazione imprevedibile. I due hanno salvato un cane abbandonato sulla strada. Nel discorso amoroso tra i due, allegro e lieve nella sua prevedibilità, si inserisce il tema più serio di come fare a tenere l’animale. L’uomo asseconda la donna, che palesemente ci tiene più di lui. Non vuole deluderla. Ma quando i due si fermano, e lei si allontana di qualche passo, lui apre la portiera e sta per far fuggire il cane, se l’incrocio con lo sguardo della donna non lo precipitasse a spettatore della propria meschinità e falsità.

Una situazione di vergogna che più classica non si può, quasi una variazione sul tema sartriano dello sguardo altrui. Ma che accade alla vergogna nell’epoca dello sguardo virtuale, della visibilità sui social, delle nuove tecnologie della visione? È il tema affrontato da una giovane filosofa, Federica Cavaletti, nel libro Sguardi che bruciano. Un’estetica della vergogna nell’epoca del virtuale, appena uscito da Meltemi. Come hanno cambiato la vergogna le tecnologie mediali contemporanee?

La prima cosa che viene in mente, in proposito, è che i social, i video su YouTube, le foto e i filmati che corrono da un telefonino all’altro costituiscono un’enorme proliferazione e dilatazione dello sguardo altrui, quello sguardo che è inseparabile dalla vergogna. E troppi episodi ci parlano di svergognamenti mediatici che si trasformano in una sorta di linciaggio, che travolge la vittima, talora fino alle estreme conseguenze. L’impresario siciliano che organizza un evento ma viene piantato in asso dal pubblico che lascia il teatro vuoto, accaduto qualche mese fa, in passato si sarebbe attirato al massimo gli sfottò da parte di pochi venuti a conoscenza del fatto. L’immagine del teatro deserto e i commenti sui social travolgono invece il malcapitato fino a fargli provare una vergogna irredimibile, e si uccide.

Del resto, basti pensare alla forma più sordida di vergogna indotta, il body shaming. E in particolare al suo ruolo nel bullismo. Lo svillaneggiamento della bambina o del bambino con problemi di peso c’è sempre stato, ma riguardava la classe, la cerchia dei compagni. Oggi una foto postata può fare il giro di tutta la scuola, poi di una città, potenzialmente del mondo intero. Lo stesso accade nel fenomeno del revenge porn, una bassezza che dovrebbe svergognare chi la fa, e che invece spesso scatena la morbosità anche di chi non conosce la vittima.

On-line

Cavaletti non sottovaluta questi aspetti, ma l’intento del suo libro è un altro, e in un certo senso opposto. L’autrice è interessata a quegli aspetti delle tecnologie mediali contemporanee che possono contribuire a superare esperienze molto comuni di vergogna, in primo luogo quelle legate all’immagine insoddisfacente del proprio corpo. L’idea di fondo è che ormai la vita on-line è contigua e intrecciata con quella off-line, e quindi acquistare una diversa sicurezza e confidenza col proprio corpo, seppure in un ambiente mediatico, può avere riflessi positivi anche nella vita consueta. Ecco allora che l’avatar che ci scegliamo per la nostra identità in rete può abituarci a rinegoziare il nostro modo di interagire. Cavaletti parla di avatar come armature e come scudi: è vero che solo di rado possiamo effettivamente scegliere le nostre fattezze virtuali (il che, tuttavia, in qualche caso è possibile), ma la sicurezza che acquisiamo agendo con un profilo virtuale può riverberarsi sul comportamento quotidiano. In altri casi potersi afferrare per come ci vedono gli altri può agire sulle esperienze di vergogna più invalidanti, come accade in certi percorsi terapeutici che utilizzano tecniche immersive contro le forme più gravi di imbarazzo.

Sono sufficienti questi impieghi positivi delle nuove tecnologie a bilanciare i rischi della vergogna veicolata in rete?

Cavaletti ne è convinta e offre una ampia messe di esempi. Ma a noi qualche dubbio rimane, e non solo perché i mondi paralleli in rete, da Second Life al Metaverso, hanno stentato e stentano a decollare, ma anche perché ben poco sembra in grado di bilanciare l’aspetto più devastante della vergogna indotta dai social, il fatto che l’episodio che ci ha fatti vergognare può restare eternato dalla rete. Il senso di ineluttabilità che accompagna da sempre il sentimento di vergogna rischia di dimostrarsi letteralmente vero, e di ancorarci per sempre a un’immagine di noi in cui non ci riconosciamo. Come nella inesorabile chiusa del Processo di Kafka: «E fu come se la vergogna dovesse sopravvivergli».

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