Il 7 ottobre, un anno fa, fu l’esempio più bestiale di antisemitismo. Gli ebrei massacrati in quanto ebrei dai terroristi di Hamas nei kibbutz, a un rave party, per la strada. Un grumo di Shoah. Sarebbe stato necessario dare il nome esatto alla carneficina, senza se e senza ma.

Subito si ingenerò artatamente la confusione semantica per difendere l’indifendibile, un giustificazionismo che dal lessico si trasformò in azione. Per alcuni settori della destra estrema nostalgica di fascismo e nazismo, purtroppo in larga crescita nel mondo, fu senz’altro una forma di “resistenza”, addirittura di “rivoluzione”. E analogamente per alcuni settori della sinistra estrema terzomondista che la bollò come “ribellione” al colonialismo dello Stato di Israele.

Benché inespressa, la conclusione logica degli assunti aberranti è che, per parafrasare un vecchio slogan, “uccidere un ebreo non è reato”. Già dal principio, dunque, si generò un’inversione di senso o, al minimo, una confusione tra due termini che non sono affatto sinonimi e che già al loro interno si prestano a differenti interpretazioni a causa dell’abuso. Se quella era “resistenza” allora il bersaglio non era l’ebreo in quanto tale ma lo Stato d’Israele. Non antisemitismo ma antisionismo.

Quale versione poi dell’antisionismo? La più radicale, cioè la negazione stessa della legittimità dell’esistenza dello Stato di Israele (che ha una parentela stretta con l’antisemitismo) o la condanna dell’operato dei suoi governanti, dell’occupazione dei Territori che data dal 1967?

Comunque sia se ne giovò l’antisemitismo, presente da quando esiste il concetto di occidente e in forte crescita pressoché ovunque nel nuovo millennio. Spinto, come è ciclicamente successo, dalle crisi economiche e dalla comparsa sul mercato delle idee del radicalismo jihadista prima di Al Qaeda poi dello Stato islamico che ha conquistato le menti di migliaia di giovani musulmani (e non solo...) in patria come nei luoghi dove sono emigrati.

Così è ripartita con ancora maggior vigore la caccia all’ebreo, ad esempio in Francia, dove esiste la comunità più ampia del Vecchio Continente, circa 500 mila persone, migliaia delle quali si sono risolte a fare “aliyah”, trasferirsi in Israele perché si sono sentite in pericolo. Il conflitto Israele-Hamas trasportato nelle lande d’Europa.

Sull’equivoco originario, a peggiorare le cose, si è innestata in modo sciagurato la smodata, eccessiva e inaccettabile reazione del governo Netanyahu. I bombardamenti indiscriminati, le stragi di civili, la fame usata come arma di guerra (è un’accusa del tribunale internazionale), gli spostamenti forzati di una popolazione ridotta allo stremo, hanno indotto fette crescenti dell’opinione pubblica, soprattutto giovanile, a equazioni ignobili, Netanyahu come Hitler, inneggiare ad Hamas, fino al cartello blasfemo contro Liliana Segre, «agente sionista».

Troppo facilmente però si è criminalizzata un’intera generazione di studenti Pro-Pal, indignata per l’inerzia e l’inazione della comunità internazionale, incapace di frenare la furia dell’esercito israeliano e ridotta a comunicati di condanna sterili e inefficaci. Che ci siano all’interno di quel movimento gruppi di facinorosi esaltati dalle imprese dei terroristi, non c’è dubbio. Ma la gran massa esprime un sentimento di sincera empatia verso chi soffre, verso le vittime.

È stata la difesa tetragona di Israele anche davanti a certe enormità, sostenuta pure da molta stampa, a provocare il cortocircuito tra antisionismo e antisemitismo.

Se bisognava essere nettamente o di qua o di là, allora la scelta, soprattutto se si è giovani, come è sempre stato si sta dalla parte dell’idealità, magari ingenua ma viene assai più avanti il tempo di essere pompieri.

Se vale un’esperienza personale, credo sintomatica. Ho due figli poco più che adolescenti che hanno pianto calde lacrime ad Auschwitz, da quella visita hanno tratto la conclusione di volersi battere per i diritti, iscriversi a una facoltà conseguente per entrare in qualche ong o organismo internazionale. Ripudiano l’antisemitismo come il male assoluto.

Eppure, o forse proprio per questo, davanti allo scempio di Gaza sono voluti scendere in piazza, giudicando insopportabile la reiterazione, e ormai è un anno, degli ordigni sui civili.

C’è voluta tutta la pazienza di lunghe discussioni, per far loro capire quando l’antisionismo tramuta in antisemitismo ed è inaccettabile. Invece che colpevolizzare, questo è il compito dei padri e dei nonni. Impalcarsi a detentori di una verità e biasimarli tout court sortisce solo effetti nefasti.

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