Nel villaggio il 7 ottobre sono stati uccisi 102 residenti, il più piccolo di nove mesi e il più anziano di 88 anni. Oggi solo un decimo della popolazione ha fatto ritorno, gli altri sono stati ricollocati più lontano dal confine
Non fa più paura andare a Be’eri. Non è più come nei primi mesi dopo il 7 ottobre, quando i colpi di mortaio cadevano improvvisamente facendo urlare ai soldati gheshem sagol, “pioggia viola” come li chiamano in slang militare, mentre si gettavano a terra per mettersi al riparo.
Quando cadevano ancora i razzi e i giornalisti dovevano indossare tassativamente un giubbotto anti-proiettili e firmare un foglio, prima di entrare nella zona militare chiusa, assumendosi piena responsabilità per eventuali «danni o perdite subite alla mia persona o proprietà, di qualsiasi tipo o entità, inclusa la morte». Oggi si sente solo qualche cannonata lontana dell’esercito israeliano nel cuore di Gaza. Per il resto nel villaggio frontaliero c’è un’atmosfera di calma.
La morte però rimane nell’aria. Solo il 10 per cento dei residenti hanno fatto ritorno al villaggio, cioè un centinaio di persone; gli altri dopo lunghe traversie si sono trasferiti qualche settimana fa presso il kibbutz Hatzerim, sempre nel sud di Israele, vicino Be’er Sheva. Finalmente di nuovo insieme, in un quartiere nuovo di zecca costruito per loro dal governo, un po’ più lontano dalla zona di guerra. Tutti però sono in lutto: chi non ha ancora iniziato a piangere i propri cari è solo perché sta ancora aspettando, un anno più tardi, di vederli emergere miracolosamente dai tunnel di Gaza.
I numeri sono quelli della comunità in assoluto più colpita nel pogrom islamista di un anno fa: 102 morti, il più piccolo di nove mesi e il più anziano di 88 anni. Trentatrè uomini delle forze di sicurezza caduti cercando di contrastare l’invasione. Trenta rapiti di cui 18 rilasciati durante lo scambio con Hamas nel novembre 2023, solo tre considerati ancora vivi dentro la striscia.
Ma la calma è sinistra anche per un altro motivo. L’esercito israeliano ha spazzato via ogni edificio e presenza umana da una striscia di territorio dalla parte palestinese del confine. È quella che gli israeliani chiamano la fascia di sicurezza, una zona un tempo abitata, coltivata o frequentata dalla gente di Gaza. La si vede bene da un punto di osservazione situato sulla sommità di Sderot, la cittadina vicina. Anche all’orizzonte, dove ci sono i centri abitati e poi il mar Mediterraneo, la distruzione è ovunque. Calma, sì. Ma a quale prezzo?
La vita nel kibbutz
Il mio Virgilio in questo luogo di dolore è il trentacinquenne Dotan Nave, nato e cresciuto a Be’eri, il cui padre è rimasto ucciso il 7 ottobre. Il giro inizia così: «Salve sono Dotan. Ho vissuto qui tutta la vita a parte qualche anno a Gerusalemme. Mia nonna è stata fra i fondatori del kibbutz nel 1946. La nostra principale fonte di sostentamento qui è una tipografia. Poi c’è anche molta agricoltura».
La comunità era un kibbutz in piena regola: quello che Dotan guadagnava come graphic designer andava nel salvadanaio comune, e ciascuno riceveva secondo il bisogno. Le case venivano assegnate da un comitato centrale a seconda della dimensione della famiglia. Solo le vecchie pratiche più radicali erano state abolite: come la linà meshutefet, cioè l’obbligo per i bambini di dormire in una stanza comune, per crescere come prole della comunità e non solamente dei genitori.
Prima di ripercorrere le macabre tappe della mattanza del 7 ottobre, Dotan tiene molto a dire una cosa. «L’ideologia della gente di qui prima del 7 ottobre era molto orientata verso la pace e la coesistenza. Non abbiamo mai avuto intenzione di occupare una terra. Questo posto era una landa desolata prima che mia nonna e i suoi amici venissero qui: i discorsi d’odio sul sionismo che si sentono oggi nel mondo non sono veri».
Non è il caso di Dotan, ma nel kibbutz oggi c’è anche chi, dopo il trauma del massacro, ha perso fiducia nella possibilità di vivere vicino ai palestinesi. Come Danny Majzner, 63 anni, arrivato in Israele a sette anni da Sydney, in Australia. La sorella maggiore è rimasta uccisa nell’attacco. Lui dice: «O noi, o loro». Che cosa vuol dire? «Non lo so, ma è quello che sento».
Dotan, un ragazzo alto, magro, di carattere docile e gentile, dice di rimanere convinto che l’esercito di Israele si comporti nel rispetto dello ius in bello dentro Gaza. Come molti israeliani, non si fida dei numeri diffusi da Hamas, che parlano ormai di oltre 40mila vittime. «Dopo che hanno fatto quello che vedi, come potremmo fidarci di loro?»
Le falle nella sicurezza
Il giorno in cui questa comunità è stata completamente invasa dai miliziani Dotan era casa con la moglie incinta. «Alle 6:30 sono iniziati gli allarmi. Ci siamo rinchiusi nel maamad», racconta camminando dal “quartiere dei vigneti” a quello “degli ulivi”. I maamad o rifugi di cemento armato sono luoghi angusti e claustrofobici, spesso senza aria, acqua, connessione internet o linea telefonica. Può essere spiacevole passarci anche pochi minuti. Dotan ci ha passato 19 ore.
Nel frattempo suo padre si era lanciato nel tentativo disperato di mettere in salvo la sua compagna, la sessantenne Yona Friker, da cui anche Dotan andava a cena ogni venerdì sera. Non è riuscito a trarla in salvo, e anche lui è rimasto ucciso.
Uno dei motivi per cui la strage a Be’eri è stata così sanguinosa per i residenti è che gli uomini chiave della kitat konenut, l’unità di sicurezza di pronto intervento formata da civili del villaggio, sono stati uccisi quasi subito. In particolare Arik Kraunik, 54 anni, che era il responsabile del deposito d’armi, è stato liquidato con le chiavi in tasca prima di poter raggiungere il magazzino. Anche Ilan Weiss, 56 anni, l’altro residente che aveva le chiavi, è stato ucciso prima di poter distribuire i fucili. E l’esercito è arrivato molto in ritardo.
Un documentario sui fatti di Be’eri uscito da poco su Uvdà, un programma televisivo d’inchiesta israeliano, mostra immagini inedite delle telecamere di sicurezza al cancello d’ingresso del villaggio. In un passaggio si vedono cinque poliziotti che arrivano al kibbutz ma, armati di sole pistole a fronte di un vero e proprio esercito di miliziani, decidono di svignarsela. Non saranno felici che, un anno dopo, quei loro momenti antieroici vengano rivisti da mezzo paese.
Gli ostaggi
Dotan indossa il ciondolo con scritto “Bring them Home” dedicato agli ostaggi – lo si vede al collo di tanti israeliani. «È molto importante fare un altro accordo per liberare gli ostaggi. È decisivo per noi chiudere quel capitolo prima di poter provare a tornare a vivere qui», spiega. L’ethos israeliano di fare del salvataggio degli ostaggi una priorità assoluta era una colonna portante dell’identità israeliana. Nel 2011 il solo soldato Gilad Shalit fu scambiato per 1,027 prigionieri palestinesi di primo piano. In fondo, Israele era nato proprio con la missione di proteggere gli ebrei dalle persecuzioni.
Ma dopo il 7 ottobre anche questa certezza è entrata in crisi. Netanyahu, sotto pressione degli alleati oltranzisti, è spesso sembrato svicolare dalle trattative pur di continuare la sua guerra totale. Al punto da far dire a Hila Fenlon, una contadina del villaggio frontaliero di Netiv Ha’asara, «i palestinesi sono distrutti fuori, ma noi siamo distrutti dentro».
Dotan ricorda ancora lo sguardo sconvolto dello scrittore David Grossman quando lo scorso autunno lo accompagnò, per la prima volta, fra le case bruciate e distrutte del kibbutz. Lo scrittore disse: avevo visto in televisione che era un disastro, ma non credevo fino a questo punto. Oggi alcune delle case attaccate sono state rase al suolo in vista di una possibile ricostruzione. Altre sono ancora com’erano all’indomani del 7 ottobre.
Il futuro e la memoria
È questo il dilemma che, quando e se questa guerra sarà davvero finita, dovranno affrontare i membri del kibbutz. Riportare questo posto alla vita o farne un luogo di memoria? «Non voglio ritrovarmi a vivere in un villaggio in cui, il fine settimana, arrivano le scolaresche a buttare per terra la carta dei gelati», dice un residente. Oggi si vedono spesso gruppi di militari, portati in visita per darsi la carica, spesso prima di missioni nella striscia di Gaza.
Nel frattempo, in Israele, l’immagine simbolo del primo anniversario di Be’eri è un’istantanea di Kinneret Gat, un’insegnante di 67 anni rimasta uccisa nel villaggio il 7 ottobre. La figlia, Carmel Gat, era una dei sei ostaggi israeliani giustiziati in un tunnel di Gaza a fine agosto, un episodio che ha scatenato la protesta contro Netanyahu. Nella foto si vede Kinneret in balia dei miliziani poco prima di essere uccisa. Lo sguardo è sereno, quasi sprezzante. Fissa il suo aguzzino e gli fa una linguaccia.
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