Le regole di linguaggio alle quali Beppe Grillo ha chiesto si attengano i talk show televisivi che hanno «ospiti i portavoce del M5S», oltre a essere «di buon senso e di buona educazione», sono quelle che disciplinavano, fin dal loro avvio, esattamente sessant’anni fa, le «tribune politiche» di Jader Jacobelli. Da allora quelle regole sono valse e vigono in tutti i programmi nei quali protagonisti sono stati e sono i leader e i rappresentanti dei partiti (non i giornalisti), richiesti e messi in grado di esporre al «grande pubblico della tv» i punti di vista e le concrete scelte di programma e di governo della loro parte. Un’offerta relativa a un «bene di merito», che si voleva propizia alla libera formazione di un’opinione pubblica (come certo non avveniva nei paesi totalitari: era implicito, fino al 1989), non ipotecata dalle ideologie - la missione storica, poi si disse, del giornalismo e della comunicazione politica nella seconda repubblica. Con la quale, però, quel bene si è inflazionato ed è scaduto (va da sé) nella moltiplicazione lungo l’arco della giornata e della settimana di talk con esponenti di sigle o di schieramenti (perché nel frattempo, si sa, i partiti sono finiti, e il M5S per principio non lo è) disponibili a tutte le ore.
Nell’agenda dei media soprattutto televisivi, e nella gerarchia delle fonti e dei formati che segna da sempre l’apprendistato e la pratica giornalistica nel nostro paese, i leader - come un tempo i notabili - hanno uno statuto a parte. A Lorenzo Fioramonti, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del governo Conte 2, che in un programma tv (Piazza pulita, la7, 24/10/2019: appena prima della pandemia) pretendeva di avviare «un dibattito mediatico serio» su quei temi, un giornalista ricordò qual era il suo posto nel teatrino della politica messo in scena dai media. Questo effetto collaterale della personalizzazione della politica si aggiungeva al silenzio mediale che dieci giorni prima aveva accolto la presentazione, nella sede del Consiglio nazionale delle Ricerche a Roma, della Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, un documento che dal 1991 non veniva redatto, presentato al pubblico e messo a disposizione del Parlamento. In breve: ventotto anni di mancati adempimenti istituzionali e politici che hanno, evidentemente, contribuito ad atrofizzare l’attenzione e la sensibilità intellettuale alla ricerca e all’innovazione di un giornalismo come il nostro, nella parte maggiore e più influente così contiguo alla classe politica.
Tanto più sorprendente, quella sordità, se si tiene presente la prontezza con cui dal maggio 2018 i più svegli fra i media italiani sono riusciti a integrare nel flusso della loro offerta (SkyNews24 anche negli orari dei tg) la produzione diuturna di tweet e di post su Facebook e Istagram, una strategia di comunicazione siglata Trt-Territorio-Rete-Televisione e strutturata in un software scritto da un docente dell’università di Verona per il leader della Lega: una novità, nel mestiere e nell’impresa, di rilievo europeo per l’Economist. E una copertura mediale che Beppe Grillo - con i giornalisti suoi fiancheggiatori - se la poteva soltanto sognare nel 2007, mentre navigava in un canotto sulle braccia levate della massa da lui raccolta in piazza a Bologna nel V-day. L’anno prima che il centro-destra vincesse le elezioni con la maggioranza dei voti più cospicua della storia della Repubblica e quattro anni prima che il governo Berlusconi, espresso da quel Parlamento, cedesse il passo a quello di Mario Monti, anche allora per «salvare l’Italia».
Una bancarotta governativa, politica e del maggioritario, che aprì la strada allo smottamento di sistema del 2013 e che ha trovato subito, e poi negli anni, sui media più sensibili alla creatività della politica pop un’attenzione meno commossa e culturalmente impegnata di quella dedicata a Silvio Berlusconi intento a pulire il sedile da cui si era appena alzato Marco Travaglio, prima di sedersi anche lui, ospite in uno show pre-elettorale di Michele Santoro il 10 gennaio 2013. Potrebbe essere soltanto fatuità, se non fosse anche una convinzione diffusa che «la televisione ha una sua ambiziosa vocazione ontologica da seguire: creare un mondo speculare, mimetico, parodistico, avvolgente quello vero, tanto da non porsi più il problema della differenza tra originale e copia, tra reale e simulacro».
Mentre vanno in scena nei talk tv di prima serata i comizi politici di conduttori e amici di conduttori, forse è il caso che il giornalismo italiano, industria e professione, provvedano al proprio recovery. Senza una reale «distanza» dalla politica - dal personale politico -, senza il sentimento della comune cittadinanza nutrito quotidianamente da dosi massicce di un vaccino noto da secoli, anche in Italia, come senso civico, non si va da nessuna parte. Neppure se arrivasse un Draghi. Che, infatti, da questi media, oggi, si tiene lontano.
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