Si deve ai Conservatori europei di Giorgia Meloni il passo indietro dell’Europarlamento in termini di parità di genere: la scarsità di donne nel gruppo Ecr fa precipitare all’indietro la rappresentanza femminile per la prima volta dal 1979. Ora cosa farà la premier? Aggiungerà l’ennesimo nome maschile – quello del ministro Raffaele Fitto – alla lista già sbilanciata di aspiranti commissari?

Un problema politico

Il fatto che i leader di governo europei abbiano platealmente ignorato la richiesta di nomi anche femminili fatta da Ursula von der Leyen non è solo un affronto; potrebbe pure ritorcersi loro contro. Il quadro che si sta completando – perché tutti, tranne Meloni e pochissimi altri, hanno già avanzato i nomi – non è solo sbilanciato a destra, come lo sono gli stessi governi, né solo sul versante maschile. Privilegiando beghe interne e fedeltà politiche, rappresenta un tradimento dei trattati e degli ideali europeisti.

C’è chi ha nominato i fedelissimi, chi i ministri, chi a Bruxelles spedisce alleati scomodi, chi privilegia dinamiche di coalizione, chi sceglie personaggi di rango non primario per equilibri interni. Peccato che i trattati impongano di indicare nomi con vocazione europea: i commissari devono restare indipendenti dai governi, e l’indipendenza è un requisito sin dalla nomina, come pure competenza e impegno europeista (dicono i trattati). Il commissario non va scelto in quanto parafulmine dell’esecutivo che lo nomina – come invece pensa Meloni – ma perché il migliore per gli europei

A furia di concentrarsi sulle dinamiche interne, comportandosi da discoli della parità di genere, i governi forniscono a von der Leyen – che si è già contraddistinta per lo stile di potere accentratore – un alibi per scompaginare a suo piacere la squadra.

Le ambiguità della destra

«Non sono mai stata una femminista»: Meloni lo ha pure scritto nel suo libro, Io sono Giorgia. La presenza di leader donne non implica politiche femministe, come si è visto dai tempi di Margaret Thatcher (che Beatrix Campbell ha inquadrato come esponente del “neoliberismo neopatriarcale”); la stessa leadership von der Leyen non è esempio di femminismo in tema di diritti sociali, e l’arrivo di Christine Lagarde alla guida della Bce è stato definito dalla femminista Nancy Fraser come la prova che sfondare il tetto di cristallo non basta. Tuttavia i partiti populisti di estrema destra stanno utilizzando la presenza di leader donne all’interno della propria strategia: si vedano Marine Le Pen (Rassemblement National), Alice Weidel (AfD) o Riikka Purra (ministra delle Finanze nonché leader dei Veri Finlandesi); queste figure non ambiscono ad ampliare i diritti (anzi ne attaccano platealmente alcuni, come quello all’aborto) ma a renderli esclusivi ed escludenti (Le Pen contro l’Islam, Weidel e Purra con politiche di austerità).

All’Europarlamento FdI si è opposto alla direttiva per la parità retributiva, per dirne una. La maschera cade: è vero che FdI è guidato da una donna, o che ha fatto eleggere Antonella Sberna tra le vicepresidenti del Parlamento Ue. Ma a guardare la composizione del gruppo, si nota una schiacciante maggioranza di uomini nella delegazione di FdI; e nell’intero gruppo Ecr meno di una su quattro eurodeputati è donna. Tanto che Politico, il bollettino di riferimento per la “bolla brussellese”, non esita a concludere che «il significativo calo (dal 30 al 22 per cento) di eurodeputate donne in Ecr (17 su 78), pur guidato da una donna, Meloni, porta per la prima volta dal 1979 a una decrescita della rappresentanza femminile».

Il paradosso delle nomine

La più che probabile designazione di Fitto come commissario darà un ulteriore colpo alla parità pure in Commissione. Quasi tutti i paesi hanno indicato i loro nomi ma quelli femminili stanno sulle dita di una mano: oltre alla Germania che ha la presidente, all’Estonia che ha l’alta rappresentante Kallas e alla Croazia che conferma Šuica per il bis, solo la Spagna socialista pensa a Teresa Ribera, la Finlandia sceglie Henna Virkkunen e la Svezia Jessika Roswall. Coi rapporti già incrinatisi per il mancato sostegno di Meloni a von der Leyen, se l’Italia aggiunge un altro maschio al parterre si rischia il tilt diplomatico.

E non solo. I trattati non obbligano von der Leyen a subire un nome dato da un governo: dicono semmai che gli stati devono avanzare alcune proposte, rispettando precisi criteri, e che serve il via libera della presidente oltre che del Consiglio. «La chiave è in mano a von der Leyen», conclude il giurista Alberto Alemanno.

Vale la pena soffermarsi sui criteri: mentre nei trattati non è esplicitato un obbligo di equilibrio di genere, quel che è certo è che i futuri commissari devono spiccare per «competenza» e «indipendenza». Insomma non vanno a Bruxelles per far da sponda agli esecutivi che li nominano, come invece pensa Meloni: in passato ha accusato Gentiloni di «non aiutare l’Italia» e il motivo per cui Fitto è per lei cruciale è proprio il suo ruolo di parafulmine del governo in Ue.

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