Il 3 settembre del 1944, in una Perugia ormai liberata dai fasci littori, Aldo Capitini pronunciava il discorso inaugurale dell’anno accademico dell’Università per stranieri di Perugia, di cui era stato nominato Rettore commissario. Nell’aula magna in stile imperiale nel cuore del settecentesco Palazzo Gallenga, al posto dei busti di Mussolini e di Vittorio Emanuele III, in alto erano stati collocati quelli di Dante Alighieri e Leonardo da Vinci. In mezzo l’imponente affresco di Gerardo Dottori, interpolato dal pittore stesso per rendere non riconoscibili i connotati di Mussolini in una delle grandi figure dipinte.

Di fronte a un pubblico sicuramente variegato e di multiformi sentimenti, provato dalla guerra ma anche elettrizzato dal nuovo inizio, il filosofo della non violenza – che pur sostenendo gli ideali della resistenza armata aveva scelto di non aderirvi per non partecipare della disumanità del nemico – pronunciava un discorso non scontato di denuncia delle leggi razziste di recente rinvenuto da Maurizio Pagano nell’archivio dell’Università.

Non scontato perché il paese, anche nella nuova stagione repubblicana, non solo non si presentava particolarmente zelante nel riparare materialmente i torti commessi ma mai forse sarebbe stato pronto a confrontarsi fino in fondo con il crimine collettivo compiuto. Capitini invece salutava il grande letterato Attilio Momigliano, stigmatizzando l’inattività accademica a cui era stato costretto dalle norme inique e annunciando il suo imminente corso su Dante nel singolare ateneo perugino.

Quest’ultimo era nato una prima volta nel 1921 all’interno dell’altra università cittadina, come contenitore di corsi di cultura italiana per stranieri e poi l’anno dopo anche di lingua, ad opera di un gruppo di intellettuali umbri, nel tentativo di sublimare nella disseminazione della cultura gli aspri conflitti sociali dell’immediato dopoguerra.

Rinacque una seconda volta nel 1925 allorché il fascismo rese autonoma l’Università per Stranieri, investendola del ruolo di ambasciatrice della cultura italiana nel mondo. Capitini fu quindi chiamato a riportarla ad una terza vita, rideclinando la sua missione nei termini democratici di un’ “italianità aperta” lontana dai miti nazionalistici. L’idea di Capitini era quella di una identità culturale priva di esclusività che non ne riteneva gli italiani gli unici titolari e proprietari, identificandoli bensì in coloro che sono investiti del servizio di preservarla e alimentarne continuamente il contributo alla comune cultura planetaria.

Il retaggio capitiniano è oggi di bruciante attualità, dato che in Italia, in Europa e nel mondo, i valori nazionalisti tornano a ispirare prepotentemente la politica, come avvenne un secolo fa. Dopo decenni di rimozione della questione sociale, la protesta per il diffuso disagio prende forma con il ritorno ad appartenenze ripiegate su se stesse che riproducono in chiave collettiva l’individualismo economico ed esistenziale. 

È possibile oggi pensare di trasmettere una tradizione culturale italiana? E’ possibile in un’epoca che – in politica – rievoca i peggiori fantasmi del passato mentre in ambito culturale (all’opposto ma forse non senza nesso) sembra avere chiuso la partita dell’umanesimo e della classicità, messi in discussione dal pensiero della differenza, dalla cultura di genere, dal postcoloniale, dal postumano, dalla stessa biodiversità?

Gli incontri

Alla luce di tali interrogativi quest’anno all’università per Stranieri di Perugia riaprono i battenti i corsi di alta cultura, antica istituzione che viene rievocata con lo spirito dell’angelo nuovo di Walter Benjamin, con la mente rivolta a Federico Chabod che proprio nelle lezioni alla Stranieri maturò la sua Idea di nazione e a Walter Binni che, chiamato proprio da Capitini, vi elaborò il nucleo dei suoi celebri studi su Leopardi.

Dall’11 al 15 luglio (iscrizioni aperte fino al 7), nel periodo di Umbria jazz, si alterneranno cinque studiosi in ognuna delle giornate. Inizierà il filosofo dell’italian theory, Roberto Esposito, che si soffermerà sulle caratteristiche peculiari del pensiero italiano, formatosi quando ancora lo Stato italiano non esisteva a vocazione spiccatamente cosmopolitica connessa ad altri linguaggi e culture.

Proseguirà uno dei fondatori della storia orale, Alessandro Portelli, che affronterà il problema del rapporto fra memorie ufficiali e memorie alternative nella storia d’Italia fra Risorgimento e Resistenza. Quindi lo storico Alberto Mario Banti discuterà il tessuto simbolico delle retoriche del neo-nazionalismo italiano nelle sue connessioni con il nazionalismo otto-novecentesco. Nella quarta giornata sarà invece la filosofa Donatella Di Cesare a discutere delle implicazioni conoscitive e ontologiche dell’esercizio di traduzione per costruire politicamente una comunità aperta in cui viga l’inappropriabilità di ogni cultura. E infine lo storico della letteratura Giulio Ferroni che parlerà della letteratura italiana in una prospettiva “ecologica”, affrontando il tema ambientale in autori come Pasolini, Calvino e Zanzotto.

In un’epoca che torna a credere nel valore risolutivo della guerra e ad affidare al nazionalismo il senso della convivenza civile, tale evento potrà contribuire a rievocare lo spirito di Aldo Capitini.

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