- La destra romana torna a proporre l’intestazione di una strada a Giorgio Almirante.
- Anni fa, la proposta era stata approvata in Consiglio comunale e fu fermata in extremis dalla sindaca Virginia Raggi.
- Ora la ripropone Nicola Franco, presidente dell’unico municipio romano guidato dal centrodestra, a Tor Bella Monaca, pensando all’intitolazione di un parco pubblico.
La destra romana torna a proporre l’intestazione di una strada a Giorgio Almirante. Anni fa, la proposta era stata approvata in Consiglio comunale e fu fermata in extremis dalla sindaca Virginia Raggi. Ora la ripropone Nicola Franco, presidente dell’unico municipio romano guidato dal centrodestra, a Tor Bella Monaca, pensando all’intitolazione di un parco pubblico.
Nato nel 1914 in una famiglia di teatranti e attori, laureato in lettere, convinto fascista e di sentimenti antisemiti, corrispondente di guerra, Almirante fu redattore capo della Difesa della razza. Capo di gabinetto del ministro Ferdinando Mezzasoma nella Repubblica sociale, fu arruolato nella Brigata nera “ministeriale” che operò in Val d’Ossola tra 1944 e 1945. Fin qui la carriera poco onorevole di un fascista trentenne. Con l’amnistia Togliatti, Almirante non ebbe più nulla da temere. Nel 1946 fu tra i fondatori del Movimento sociale. Eletto in parlamento, guidò il partito tra scissioni e contestazioni, tra inclinazioni conservatrici e pulsioni eversive, garantendogli una consistente presenza parlamentare. Sempre all’opposizione.
Rimase infatti fedele a un fascismo sociale antiborghese e corporativo di ispirazione repubblichina, antiamericano in politica estera, ostile alla destra cattolica e liberale, favorevole a una repubblica presidenziale e a uno «stato forte». Si potrebbe immaginare che dopo oltre settant’anni di vita repubblicana le eredità del fascismo si siano stemperate. Ma non è così.
Negli ultimi decenni, in particolare da quando Silvio Berlusconi ha “sdoganato” la destra fascista, da quando le sapienti mediazioni centriste hanno ceduto a multipolarismi gladiatori, i conflitti si sono riaccesi. Mancando chiari contenuti programmatici, utilizzano gli strumenti offerti da simboli e linguaggi che marcano più che sopravvivenze del passato, presenze nuove e bellicose. La toponomastica è uno di questi.
Il resto d’Italia
Il nome di Almirante, proprio per la accertata legittimità del suo percorso biografico si presta bene a portare il messaggio reazionario dentro le istituzioni. Ed ecco che legittimamente – e provocatoriamente – gli sono state intestate varie strade italiane, prevalentemente in Puglia (a Altamura, Molfetta, Foggia, Lecce, etc.), ma anche a Rieti, a Civitanova Marche, a Ladispoli. E l’intitolazione, gabellata come omaggio a un esponente del parlamento repubblicano – quale in effetti era – implica schieramento. Nel Veneto reazionario, ad esempio. Una via Almirante è approvata a Verona (dove è stata contestualmente negata l’intitolazione a Giorgio Gaber), mentre Schio ha impedito l’installazione delle pietre d’inciampo.
In questo clima si svolge la messa in scena romana. Anche se molti commentano che la città ha ben altri problemi, gli stanchi rituali proseguono roboanti. Fabrizio De Sanctis, presidente dell’Anpi provinciale di Roma, ha dichiarato: «Intitolare un giardino a un gerarca fascista, razzista, collaborazionista dei fascisti è apologia del fascismo, reato perseguibile d’ufficio, già consumato con la mozione e se arriveranno all’atto finale, impugneremo il provvedimento con tutti i mezzi disponibili dell’ordinamento giuridico». Da parte sua il sindaco Roberto Gualtieri ha twittato: «La toponomastica è una competenza di Roma capitale e noi non intitoleremo un’area verde a Giorgio Almirante. Roma è medaglia d’oro al valor militare per il suo contributo alla Resistenza e non dimentica la storia, i princìpî e i valori della Costituzione». La retorica scatta facilmente, come il dito su un grilletto difettoso. Roma non dimentica?
Roma non sa
Diciamo meglio Roma non ricorda, non sa. Città della Resistenza? È vero, ha offerto, e sofferto, intensi momenti di lotta e ha solidi nuclei di tradizione rossa, ma è anche una città fascista, con insediamenti anche territorialmente contrapposti, lungo quella faglia che un tempo divideva le tifoserie della Roma e della Lazio. E poiché il regime fascista aveva costellato la capitale di nomi celebrativi, nel 1945 si provvide rapidamente a rinominare.
Lo si fece con lievi adattamenti – via dell’Impero (fascista), diventò via dei Fori imperiali (romani) – o con il ripristino di nomi precedenti, o anche con più decise operazioni resistenziali: quasi in sfregio ai quartieri alti, la piazza dei Martiri fascisti – per breve lasso di tempo chiamata piazza dei Martiri dei fascisti – diventò piazza Don Minzoni e l’omonimo viale fu dedicato a Bruno Buozzi.
Ad Antonio Gramsci fu dedicata la ex via dei Legionari, tranquilla piccola strada pariolina che però alla sua estremità ospita la facoltà di architettura, e dunque nel Sessantotto ebbe l’onore di vedervi combattere la “battaglia di Valle Giulia”, (ma con nessuna memoria di Gramsci). Andò così anche a via Libro e moschetto, che divenne via Piero Gobetti; via Santander (in onore della battaglia della guerra di Spagna) fu via Fratelli Rosselli; il ponte Littorio divenne ponte Giacomo Matteotti, ché lì nei presi era stato rapito; piazzale Adolfo Hitler e viale Adolfo Hitler divennero rispettivamente piazzale dei Partigiani e viale delle Cave Ardeatine. E così via.
Così, cancellati i nomi più eclatanti del fascismo, sulle glorie coloniali invece si chiuse un occhio, forse perché care ai tanti romani. Nel “quartiere africano”, oltre a viale Libia, Eritrea, Somalia, Etiopia, Tripoli e Tripolitania (entrambe), Asmara, Massaua, Mogadiscio, tutt’ora c’è gente che abita a via del Giuba, Amba Alagi, Adua, Cheren, Chisimaio, Ogaden, Fezzan, Oms, Cirene, Agordat, Sirte, Sabrata, Ghirza e via di seguito squillando le antiche fanfare. Più dignitose vie piazze e monumenti che ricordano Dogali, perché laggiù, agli albori dell’impresa africana, nel 1887, anziché sterminare gli italiani furono sterminati.
Ma il capolavoro è la dedica a un’altra amba etiopica, via Amba Aradam, arteria non secondaria nel 1936 dedicata a una sonante “vittoria” italiana nella guerra d’Africa. In quell’amba le truppe di Pietro Badoglio compirono un massacro e poiché lanciando i gas vescicanti e mitragliando seminarono lo scompiglio tra le truppe etiopiche in fuga, è triste dirlo ma accadde che tanto quasi allegro scomposto trambusto entrasse nella lingua italiana come sinonimo di disordinata confusione. Pudicamente, il Dizionario della lingua Treccani, lo dice di «etimo incerto, ma prob. da connettere con Amba Aradam, massiccio montuoso dell’Etiopia presso il quale, nel 1936, ebbe luogo una cruenta battaglia della guerra italo-etiopica». Ma quale incerto, l’etimo è certo, certissimo, e quello è.
La stazione della metro
Roma città della Resistenza ha altro da pensare che a cambiare i nomi delle strade, dicono alcuni. Però nel caso di Amba Aradam non si tratta solo di cambiare, cosa che già sarebbe un dignitoso atto dovuto, ma di nominare ex novo. Da quelle parti infatti si aprirà una stazione della metropolitana, tra San Giovanni e il Colosseo, e chi guardi il sito dell’Atac la vedrà indicata come stazione Amba Aradam Ipponio.
Un comitato cittadino vicino al movimento Black lives matter ha proposto di intestare la stazione a Giorgio Marincola, partigiano romano di 22 anni ucciso dai tedeschi in val di Fiemme. Perché Black lives matter? Perché Marincola, figlio di madre somala, era meticcio. Dunque si può dire l’unico partigiano italiano “di colore” decorato. Nel suo ideologismo, la proposta ha una sua attualità, è stata oggetto di una mozione approvata dal Consiglio comunale e l’ha fatta sua anche Roberto Saviano.
Ma una associazione locale, Progetto Celio, convenendo che sia «improponibile una intestazione che ricordi una delle peggiori stragi compiute dall’esercito italiano nel corso della guerra coloniale», con tutto il rispetto per il giovane caduto che può essere ricordato in tanti modi, ha tuttavia segnalato «l’opportunità di identificare la stazione con la sua collocazione, per coerenza toponomastica e funzionalità pratica, così come avviene usualmente per le stazioni della metropolitana, e pertanto fa voti affinché la stazione sia nominata “porta Metronia”».
Miguel Gotor, assessore alla Cultura, storico di formazione, al quale è stata indirizzata la proposta, ha dichiarato di condividerla. Stiamo a vedere. Per il momento, siamo tra chi romanamente dice abbiamo altro di cui occuparci, non c’è più il ponentino di una volta, e le vibranti dichiarazioni antifasciste del sindaco.
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