- Martedì abbiamo fatto il possibile per soccorrere un gommone con 70 persone a bordo, ma la Guardia Costiera libica è stata più veloce e i migranti sono stati riportati da dove fuggivano.
- Siamo tristi, frustrati e arrabbiati. Sappiamo che non avremmo potuto fare nulla di più di quanto abbiamo fatto ma non basta, non può bastare.
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Non riesco a togliermi dalla testa quelle persone e il bambino nato sul gommone che inizierà la sua vita in Libia, dove i migranti sono uccisi e torturati. L’Italia e l’Europa non possono essere questo.
Questa mattina, dopo i normali turni di guardia e di distribuzione della colazione, abbiamo tenuto il nostro meeting quotidiano di aggiornamento per l’equipaggio dal punto di vista operativo, logistico, medico e di tutto il necessario. Virginia, a capo della seconda missione di ricerca e soccorso della ResQ People, ha iniziato il meeting chiedendoci di parlare di quanto abbiamo vissuto il giorno prima e di condividere con il gruppo pensieri ed emozioni.
Cos’è successo martedì? È successo che una giornata iniziata nel migliore dei modi, con una meravigliosa lezione di italiano per i 58 ospiti a bordo (un ragazzo è già stato evacuato per gravi motivi di salute grazie alla collaborazione con la Guardia Costiera di Lampedusa), si è conclusa con una grande sconfitta che ha segnato tutti.
Abbiamo infatti ricevuto la segnalazione di un gommone in difficoltà al confine tra zona SAR maltese e libica, con circa 70 persone a bordo, tra cui una donna al nono mese di gravidanza e diversi minori. Dopo una verifica delle condizioni del mare e degli ospiti a bordo, abbiamo deciso di muoverci in direzione dell’imbarcazione in pericolo. Ci aspettavano oltre 11 ore di navigazione, durante le quali sembra che la donna incinta abbia partorito il suo bambino sul gommone, ma essendo l’unica nave della flotta umanitaria civile in mare in questi giorni abbiamo deciso di provarci ugualmente.
Solo nel tardo pomeriggio abbiamo saputo che anche la Guardia Costiera libica si stava dirigendo verso di loro e, nonostante un guasto tecnico che ci ha fatto sperare di potercela fare, sono purtroppo arrivati prima di noi e hanno riportato tutti nell’orrore da cui stavano fuggendo.
Giunti sul luogo, solo lo scafo abbandonato. Quando i nostri rhib - i gommoni usati per il soccorso - sono rientrati, una donna ha chiesto «Where are they?» e così abbiamo dovuto spiegare anche a loro che no, non era rimasto nessuno, che agli altri naufraghi era toccato un altro destino.
Come ci sentiamo? Tristi, frustrati, arrabbiati. Sappiamo che non avremmo potuto fare nulla di più di quanto abbiamo fatto ma non basta, non può bastare.
Nel pomeriggio, mentre spingevamo la nave al massimo verso sud, in un attimo di pausa tra un turno e l’altro ero nella sala comune con alcuni dei nostri volontari e Matteo, logista di bordo, si è messo a suonare con la chitarra alcune canzoni tra cui un vecchio successo di Toto Cotugno. Mentre ridendo cantavamo «Sono un italiano, un italiano vero», ricordo di aver pensato che in quel momento, vicepresidente di una onlus italiana che, grazie al sostegno di migliaia di cittadini italiani e non, ha comprato una nave che potesse solcare le acque del mare Mediterraneo per salvare la vita di chiunque ne abbia bisogno, insieme ad un meraviglioso equipaggio internazionale proveniente da cinque paesi diversi, quelle parole non avevano mai avuto per me più senso di così.
E allora sì, a bordo della nostra nave non potevamo fare più di quello che abbiamo fatto, ma non riesco a togliermi dalla testa quelle 70 persone e quel bambino che nello stesso giorno in cui è nato è stato riportato in Libia e lì inizierà la sua vita. Lì dove tutti sappiamo che le persone sono uccise, torturate, violentate, picchiate, vendute, a spese dei nostri governi. 70 persone che di uniscono alle altre 25mila persone solo dall’inizio del 2021.
Io non posso, non voglio credere che l’Italia sia questo. Non posso e non voglio credere che l’Europa sia questo. Ora sta per iniziare una nuova lezione di italiano, ricacciamo indietro le lacrime e sorridiamo perché è giusto offrire ai nostri 58 naufraghi a bordo l’accoglienza migliore che possiamo dare.
Mentre insegniamo qualche frase utile per quando, finalmente, ci verrà assegnato un porto sicuro e potranno sbarcare, proviamo a restituire anche un po' di dignità, calore, umanità.
Finché le istituzioni non decideranno di cambiare radicalmente rotta, ci appelliamo a tutti quelli che come noi credono sia giusto e necessario praticare diritti per tutti, a terra come in mezzo al mare, che si sia nati nella parte giusta o in quella sbagliata della Terra: salite a bordo di ResQ insieme a noi per salvare quante più vite possibile, restituiamo un po' della fortuna che ci è toccata e diamo una speranza a chi, come i nostri giovanissimi naufraghi, hanno già sulla propria pelle e nel proprio cuore cicatrici indelebili.
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