Il rilascio deciso dal ministero della Giustizia dell’iraniano Mohammad Abedini offre l’occasione per una rinnovata riflessione sulla commistione fra politica e diritto nei procedimenti estradizionali.

L’intervento ministeriale è del tutto accettabile, ciò che non convince è la motivazione della scarcerazione che – lungi dal consentire il controllo pubblico – rischia all’opposto di minare il nostro stato di diritto, come ogni bugia che riguarda i diritti, anche se formulata nella migliore delle intenzioni.

In Italia l’istituto dell’estradizione si basa su un sistema ibrido, in cui si intrecciano competenze di natura giudiziaria e interventi di natura amministrativa. Il procedimento si articola infatti in due fasi: una giudiziaria, affidata alla Corte d’Appello e Corte di cassazione, che verificano la sussistenza dei presupposti giuridici; e una politica affidata al ministero della Giustizia, che ha la facoltà di mantenere la carcerazione o scarcerare la persona ricercata, e decidere se concedere o rifiutare l’estradizione.

Questa commistione rappresenta una deroga evidente alla classica separazione dei poteri: il potere giudiziario accerta i requisiti tecnico-giuridici, però è il ministro della Giustizia a pronunciare il provvedimento finale.

La doppia incriminazione

Il Trattato di estradizione tra Italia e Stati Uniti include disposizioni specifiche sul principio di doppia incriminazione, prevedendo che sono estradabili solo i reati puniti con almeno un anno di reclusione in entrambi gli ordinamenti. La definizione sostanziale del reato prevale sul titolo formale, non è quindi necessario che il reato sia qualificato nello stesso modo nei due ordinamenti, ma la condotta deve essere punibile in entrambi secondo una verifica che si basa sui fatti contestati.

Il 12 gennaio il ministero ha reso noto di aver ordinato il rilascio di Abedini per mancata integrazione del requisito di doppia punibilità, scrivendo che «non può ritenersi sussistente» la condizione di richiesta di estradizione per reati punibili in entrambi gli ordinamenti.

La condotta di associazione a delinquere per violare l’Ieepa «non trova corrispondenza nelle fattispecie previste e punite dall’ordinamento penale italiano» mentre, per le accuse di associazione per delinquere e fornitura di materiale ad una organizzazione terroristica, «nessun elemento risulta ad oggi addotto a fondamento delle accuse».

La motivazione non è convincente: dall’affidavit dell’Fbi trasmesso all’autorità giudiziaria italiana emerge infatti che il ricercato, con un complice, sono accusati negli Stati Uniti di cospirazione per violare l'International emergency economic powers act (Ieepa) e per aver fornito supporto materiale a un'organizzazione terroristica straniera (Irgc).

Le accuse si basano su prove che includono trasferimenti di beni e tecnologie sensibili, documentazione aziendale fraudolenta, e-mail intercettate e viaggi sospetti. Gli imputati avrebbero utilizzato società di copertura in Svizzera per camuffare le loro operazioni e aggirare i controlli sulle esportazioni statunitensi. Tutte fattispecie di reato che sono previste nel nostro ordinamento.

Non convince dunque la spiegazione del Ministero sulla mancanza di punibilità in Italia dei fatti contestati ad Abedini.

Meglio avrebbe fatto il ministro invece a ordinare la scarcerazione per ragioni di opportunità politiche, assumendosene la responsabilità di fronte al parlamento ed agli elettori. È infatti evidente che l’Italia ha giustamente offerto la scarcerazione del cittadino iraniano come contropartita del rilascio della giornalista italiana Cecilia Sala, a sua volta arrestata in Iran come futura “merce di scambio”, e quindi senza aver commesso alcun reato ma per motivi ritorsivi.

Se davvero il ministro intendeva contestare la sussistenza dei reati anche per l’ordinamento italiano, ritiene allora che l’iraniano stia subendo la cosiddetta “persecuzione mascherata”, causa obbligatoria di rigetto della domanda di estradizione perché la finalità̀ di persecuzione politica viene dissimulata con una richiesta di consegna per un reato comune?

Aver mascherato l’evidente intervento di natura politica con ragioni giuridiche dubbie non giova al nostro sistema. La giustizia, persino quando contenga elementi di natura squisitamente politica come nei procedimenti estradizionali, deve essere una casa di vetro perché, come ricordava Bobbio, «la trasparenza è il pilastro su cui si fonda la fiducia del cittadino nella giustizia». Senza trasparenza non c’è fiducia, senza fiducia non può esserci giustizia, tantomeno internazionale.

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