- Giudicarlo un test indicativo parrebbe un azzardo. Parliamo della domenica elettorale, di un turno amministrativo tutt’altro che banale (ventisei province, un migliaio di comuni, nove milioni di italiani) e di una scadenza referendaria che ha contribuito a delegittimare agli occhi di parecchi.
- Tra due settimane i ballottaggi racconteranno un’altra partita e potrebbero segnare un recupero da sinistra anche in situazioni che vedono le destre in vantaggio. Si vedrà.
- In questo caso, tolta l’amarezza per il risultato la semina c’è stata e potrebbe dare buoni frutti nella sfida decisiva tra un anno. Diversa, e più allarmante, la vicenda palermitana.
Giudicarlo un test indicativo parrebbe un azzardo. Parliamo della domenica elettorale, di un turno amministrativo tutt’altro che banale (ventisei province, un migliaio di comuni, nove milioni di italiani) e di una scadenza referendaria che la benemerita pattuglia radicale, in questa tornata col maldestro apporto leghista, ha contribuito a delegittimare agli occhi di parecchi.
Dovendo partire da qui, e col rispetto per chi nella battaglia si è speso, direi che imputare il mancato quorum al sabotaggio dell’informazione non convince. Che la corsa fosse istradata su un binario morto lo si sapeva (lasciando per altro intatti i problemi posti, anche se in parte incardinati nella riforma del governo). Il punto è che se chiedi agli italiani di pronunciarsi su tecnicalità complesse anche per uno studente di giurisprudenza più che uno stimolo a informarsi sfidi il buon senso.
Per questa via lo snaturarsi dell’istituto referendario avanza di pari passo con la disaffezione che investe ogni consultazione elettorale compresa l’ultima. Sanare la frattura limitandosi a rivedere la norma costituzionale sul quorum richiesto (il 50 per cento più uno degli aventi diritto) rischia solo di spazzare la polvere sotto il tappeto.
Le prossime politiche
Detto ciò, e archiviato l’ennesimo scivolone leghista (dal Papeete in avanti nulla da quelle parti è girato nel verso giusto) l’attenzione è bene rivolgerla al voto nelle città dove l’interesse è per una lettura degli schieramenti destinati a fronteggiarsi tra meno di un anno nel rinnovo del parlamento.
Sul tema si è rivelata preziosa la mappa dell’istituto Cattaneo che Salvatore Vassallo ha riassunto su queste colonne. Un ritorno del simbolo del Pd, la presenza saltuaria dell’M5s, mentre la destra è riuscita a preservare l’unità di immagine (sull’azione è lecito dubitare) quasi solo al nord dove a emergere è una staffetta tra il movimento di Matteo Salvini e il partito di Giorgia Meloni che sbilancia ancora di più a destra il baricentro di quello schieramento. Naturalmente toccherà anche a noi, al campo largo del centrosinistra, misurare gli effetti di una strategia che, persino al di là dei numeri, deve rivolgere al paese un messaggio politico chiaro sulle alleanze per il dopo.
Il campo largo
Per il centrosinistra le notizie migliori arrivano da Padova, Taranto e Lodi con successi al primo turno, ma pure da Como, Barletta e le altre città dove la partita dei ballottaggi si presenta aperta. Viceversa Genova e Palermo segnano una sconfitta. In parte attesa e comunque dolorosa. Nel capoluogo ligure Marco Bucci ha sfruttato una sindacatura dotata di risorse e poteri commissariali successivi alla tragedia del ponte Morandi. Sull’altro fronte il civico Ariel Dello Strologo è riuscito a compattare il centrosinistra, ma pagando alcune defezioni (leggi Italia Viva).
In questo caso, tolta l’amarezza per il risultato la semina c’è stata e potrebbe dare buoni frutti nella sfida decisiva tra un anno. Diversa, e più allarmante, la vicenda palermitana, non solo perché il centrosinistra esprimeva l’amministrazione uscente, ma perché attorno al neo sindaco, Roberto Lagalla si sono compattate molte delle vecchie anime e degli interessi meno trasparenti di una città che rischia ora una doppia capriola nei suoi trascorsi peggiori. Franco Miceli ha corso per mesi in salita, recuperando consensi, aggregando energie civiche e offrendo un progetto di comunità che avrebbe chiesto più tempo e risorse (valga da monito per il futuro). Chiusa la lunga parabola di Leoluca Orlando quella che si apre ora è una pagina tutta da scrivere, parlo del clima di restaurazione che obbligherà la nuova giunta a onorare un bel numero di “cambiali”.
Per il centrosinistra e il Pd potrà essere l’occasione di una stagione dove ripensare e rifondare molte delle nostre priorità. Quanto a L’Aquila la fotografia potrebbe duplicare quella di Genova, con un sindaco che ha gestito il secondo quinquennio della ricostruzione post-terremoto anche grazie a bilanci giustamente generosi e dove l’opposizione ha puntato sulla carta dell’esperienza. Se nel cuore dell’Abruzzo quella strada non ha pagato come si sperava, diverso l’impatto della novità messa in campo a Verona, roccaforte (degli altri), dove Damiano Tommasi, ex calciatore al debutto da candidato, conquista il primato sopravanzando Federico Sboarina e Flavio Tosi, nomi rodatissimi della destra.
I ballottaggi
Tra due settimane i ballottaggi racconteranno un’altra partita e potrebbero segnare un recupero da sinistra anche in situazioni che vedono le destre in vantaggio. Si vedrà. Naturalmente grosso come un macigno rimane il capitolo dell’astensione. È chiaro che non siamo di fronte a un fenomeno episodico o circoscritto.
Se ci limitiamo a noi – noi italiani intendo – abbiamo impiegato trentadue anni (dal 1948 alle regionali del 1980) per scendere sotto una partecipazione al voto del novanta per cento. Sono serviti poi altri trentadue anni (dal 1980 alle regionali siciliane del 2012, quelle del debutto M5s sull’onda dello slogan “partiti cancro della democrazia”!) per scendere sotto al cinquanta. Tendenza che, con rare eccezioni, si è allargata a ogni genere di consultazione (europee, politiche, regionali, amministrative).
Non scorgere in questo una crisi della democrazia e del rapporto fiduciario di milioni di cittadini verso i suoi istituti fondamentali è più che una rimozione, vuol dire abdicare alla prova fondamentale per la sinistra, e non solo, ricostruire un consenso popolare, non populista, attorno a regole e strumenti di una cittadinanza matura. Percorrere questo sentiero accidentato e disseminato da ostacoli non è interesse di una destra che qui come altrove è più a suo agio quando l’antipolitica cavalca disagi materiali e rabbia sociale.
Per capirlo basta alzare lo sguardo sulle altre urne di domenica, quelle francesi, dove ha votato meno della metà di chi ne aveva diritto. Il trionfo di Macron cinque anni fa pare archiviato e domenica prossima il presidente si giocherà la possibilità di una maggioranza autonoma sotto le proprie insegne.
A fronte di una destra ridimensionata il successo è stato di Jean-Luc Mélenchon, capace di aggregare nella sigla Nupes (Nouvelle coalition populaire écologique et sociale) più o meno un quarto dei voti. Con ogni evidenza quel suo slogan, “Eleggetemi primo ministro”, ha parlato più del moderatismo tanto caro anche ai centristi di casa nostra.
Salario minimo, abbassamento dell’età pensionabile, una consistente infornata di assunzioni nella pubblica amministrazione: difficile dire quante delle promesse fatte in piazze e comizi potranno, in caso di approdo all’Hotel Matignon, tradursi in fatti, ma che un’agenda dotata di qualche radicalità possa oggi riavvicinare una parte degli elettori più offesi al proprio seggio, ecco questa non pare davvero una notizia da trascurare.
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