- Tesla inizierà ad utilizzare una nuova chimica per le sue batterie, passando dalla classica composizione nickel-cobalto-alluminio (cosiddetta Nca) ad una a litio-ferro-fosfati (Lfp).
- Per le batterie LFP non è necessario il cobalto, minerale estratto quasi esclusivamente nella Repubblica Federale del Congo, e la cui filiera rimane spesso poco trasparente.
- L’utilizzo massivo di sistemi di accumulo è un tema ricorrente nel mondo ambientalista, in quanto diventerebbe un pezzo fondamentale nella transizione elettrica.
Tesla inizierà ad utilizzare una nuova chimica per le sue batterie, passando dalla classica composizione nickel-cobalto-alluminio (cosiddetta Nca) ad una a litio-ferro-fosfati (Lfp).
Le nuove batterie sono già state testate negli ultimi mesi sulle Model 3 prodotte in Cina, nella fabbrica di Shanghai: la nuova chimica ha un costo nettamente minore in termine di materie prime, soprattutto a causa dell’alto costo di un metallo come il nickel, che ha subito un’impennata con i recenti problemi globali alla supply chain dei materiali.
Soprattutto, per le batterie Lfp non è necessario il cobalto, minerale estratto quasi esclusivamente nella Repubblica Federale del Congo, e la cui filiera rimane spesso poco trasparente e solleva importanti questioni etiche a causa dell’impiego, in alcune miniere, di lavoro minorile, come ha raccontato Luca Attanasio nelle sue inchieste su Domani.
La nuova chimica permette di mantenere un buon livello di performance - anche se non ai livelli delle Nca, che verranno quindi ancora utilizzate per le auto più veloci e di fascia economica più alta - ma soprattutto costi abbattuti e una durata superiore.
Le Lfp verranno utilizzate per la Model 3 e Model Y, i modelli più venduti, ma soprattutto per le batterie stazionarie di cui Tesla sta scalando la produzione.
È recente infatti l’inaugurazione di una fabbrica di Megapack a Lathrop, in California. I Megapack sono enormi batterie dalla capacità di 3 megawattora, che andranno a integrare parchi eolici e solari, oppure a sostituire i classici generatori elettrici per ospedali e fabbriche, fondamentali in caso di blackout.
Da qualche anno, infatti, sistemi di accumulo di questo tipo hanno dimostrato di saper competere e surclassare, in termini di velocità e performance, le centrali per il controllo del picco, alimentate a carbone o a gas, utilizzate per stabilizzare le reti elettriche.
Il primo e più grande di questi progetti è stato installato a Hornsdale, in Sud Australia. Acceso nel 2016, ha dimostrato la propria viabilità finanziaria in pochissimo tempo, di fatto ripagando l’investimento in pochi anni grazie alla rivendita dell’energia elettrica, immagazzinata durante le ore di picco di produzione del parco eolico a cui è collegata, posseduto dalla compagnia francese Neoen.
L’utilizzo massivo di sistemi di accumulo è un tema ricorrente nel mondo ambientalista, in quanto diventerebbe un pezzo fondamentale nella transizione elettrica: consentirebbe infatti di rendere stabili e affidabili energie rinnovabili che sono per loro natura intermittenti, come appunto il solare e l’eolico.
Tramite le batterie viene immagazzinato il surplus di energia nelle ore di picco di generazione: l’energia viene reimmessa in rete di notte (per il solare) e quando non c’è vento (per l’eolico).
In questo modo le energie rinnovabili potrebbero finalmente essere competitive in tutto e per tutto con le centrali a combustibili fossili, che finora sono sempre state ritenute indispensabili proprio a causa della loro efficienza ed efficacia in termini di carico di base.
La capacità della nuova fabbrica Tesla, secondo i piani, sarà di ben 40 Gigawattora annuali: quanto basterebbero per immagazzinare l’energia necessaria a dieci milioni di case, ogni giorno.
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