- La transizione verso la mobilità elettrica cancellerà qualche decina di migliaia di posti di lavoro ma dovrebbe crearne altri nella produzione di batterie, motori elettrici e componenti elettronici
- La sinistra ha storicamente ritenuto che le tematiche ambientali non portassero voti
- Se l’Italia proseguirà con politiche miopi, un mercato di vetture elettriche limitato, una produzione Stellantis ai minimi storici e una filiera in ritardo sulle competenze, nei prossimi dieci anni i nuovi posti di lavoro nasceranno all’estero.
Il sì europeo al divieto di vendita di auto a benzina e diesel dal 2035 ha sollevato i prevedibili strilli della destra italiana, che ha coerentemente votato contro il provvedimento al parlamento Ue. Matteo Salvini e soci sono perfettamente allineati con buona parte della filiera dell’auto, che da tempo lancia allarmi sulla potenziale distruzione del settore. Questa situazione rappresenta una sfida ma anche un’occasione per la sinistra italiana: l’occasione di unire finalmente ecologia ed economia, con tutte le difficoltà che ciò comporterà.
Il problema è chiaro: la transizione verso la mobilità elettrica cancellerà qualche decina di migliaia di posti di lavoro – quelli di chi produce motori a scoppio e cambi. I posti a rischio sono probabilmente meno dei 70mila citati da filiera e sindacati, e non sono molti di più di quelli che il settore ha perso negli scorsi anni fra tagli e delocalizzazioni.
La transizione all’elettrico dovrebbe crearne altri, dall’assemblaggio delle batterie ai motori elettrici ai componenti elettronici; ma non è detto che siano dello stesso tipo, che richiedano le stesse qualifiche, che siano negli stessi paesi.
Il ritardo di Stellantis
Stellantis ha accumulato forti ritardi sull’elettrificazione, e l’indotto l’ha inevitabilmente seguita. I sindacati vedono che a dispetto degli incentivi e della lieve ripresa delle vendite di auto, l’occupazione continua a calare e chi resta in fabbrica è ancora spesso in cassa integrazione.
Martedì, in un incontro con Stellantis al ministero dell’Impresa, i sindacati hanno chiesto – tra l’altro – che gli incentivi alla vendita di auto “verdi” siano tarati per favorire la produzione italiana.
In realtà il cosiddetto Ecobonus è già fortemente distorto a favore della produzione nazionale e serve poco a favorire la transizione: l’Italia è l’unico paese europeo dove nel 2022 le vendite di auto a batterie sono calate.
I sindacati fanno il loro mestiere difendendo i posti di lavoro esistenti. Non è compito loro elaborare strategie di politica economica. Ma la filiera e buona parte della politica italiana credono ancora di poter scongiurare il passaggio alla mobilità elettrica quando gli eventi sembrano dimostrare il contrario.
L’occasione per la sinistra
La sinistra ha tradizionalmente anteposto le ragioni dell’economia a quelle dell’ecologia, e anche nelle ultime tornate elettorali ha sollevato i temi ambientali in modo non più che sommesso. L’idea è che il tema dell’ambiente sia “perdente”: un candidato del Pd alla regione Lombardia, a una mia domanda sui temi ecologici, qualche giorno fa rispondeva sconsolato: «Quando ne parliamo in provincia, su questi temi la gente non ci sente».
“Questi temi” comprendono l’inquinamento dell’aria che fa della pianura padana una delle regioni più inquinate d’Europa; comprendono i divieti di ingresso nelle città alle auto private, con l’obiettivo di ridurre i gas nocivi; comprendono tutto ciò che ostacola un modello di economia e di mobilità costruito dagli anni ‘50 del secolo scorso sull’auto privata.
Eppure il candidato Pd alla regione Lombardia Pierfrancesco Majorino ha battuto il rivale leghista Fontana tra gli elettori più giovani, e i temi ambientali devono aver avuto un qualche peso. La sfida per la sinistra è catturare i voti dei giovani più convinti della necessità di difendere l’ambiente e al tempo stesso non abbandonare al loro destino gli operai dell’auto.
Come? Prendiamo il caso lombardo: la regione è al secondo posto per imprese operanti nel settore auto, dopo il Piemonte, e dispone di una presenza significativa proprio nei settori più legati alla mobilità elettrica. Le conviene davvero che il paese si intestardisca in una battaglia di retroguardia, salvando magari qualche migliaio di posti di lavoro per pochi anni ma perdendo il treno delle tecnologie del futuro? Non sarebbe meglio tagliare gli incentivi alle auto più inquinanti, che per altro si vendono da sole, e dirottare i fondi su programmi di riconversione di settore?
La sinistra dovrebbe dirlo chiaramente: se l’Italia proseguirà in queste politiche miopi, con un mercato elettrico inesistente, una produzione di auto Stellantis ai minimi storici e una filiera in ritardo sulle competenze, nei prossimi dieci anni i nuovi posti di lavoro nasceranno all’estero.
Il gran numero di imprese medie e piccole che negli anni hanno imparato a essere meno dipendenti da Torino e a lavorare anche per i colossi tedeschi rischiano di sparire se non riusciranno ad adattarsi; la transizione in Germania è già partita e non si spaventa certo per gli strilli di Salvini. Se l’Europa corre verso l’elettrico e l’Italia resta al palo, negli anni Trenta il paese rischia di trasformarsi in una discarica di vecchi diesel.
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