- Oggi, nei programmi di una destra che si considera già vincente e pronta a cambiare da sola la Costituzione, l’autonomia differenziata viene agitata come bandiera e presentata come il compromesso tra il presidenzialismo e il tanto agognato federalismo.
- Le due proposte si accompagnano con quella della flat tax, apertamente in contrasto con la progressività imposta dall’articolo 53 della Costituzione. La miscela è esplosiva.
- Perseverare nell’errore compiuto nel 2001 e aggravato dalla copertura politica data da regioni di centrosinistra risulta, oggi, incomprensibile.
Nel programma del centrodestra torna, con grande risalto, l’autonomia differenziata, prevista dall’articolo 116, comma 3, della Costituzione, che consente di attribuire ad alcune regioni, in base ad accordi con il governo, «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», cioè funzioni amministrative in materie che in via generale (nelle altre regioni) sono mantenute alla competenza dello stato.
Prima della caduta del governo Draghi circolavano bozze di accordo per concedere questa autonomia a Lombardia, Veneto (centro destra), ed Emilia-Romagna (centro sinistra), già esaminate su Domani da Giuseppe Pisauro, che ha segnalato gli effetti devastanti che si possono produrre: una differenziazione delle prestazioni, quindi una nuova disuguaglianza nel godimento di diritti costituzionali, a favore delle regioni più ricche, che lo stato, con la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni non è mai riuscito a limitare (vedi il caso della sanità, reso evidente dalla pandemia); la rottura dell’unità di indirizzo politico in materie decisive per la tenuta dell’unità del paese come la sanità, l’istruzione pubblica, i beni culturali, l’ambiente, accompagnata da una disarticolazione dell’amministrazione dello stato, che manterrebbe, a pelle di leopardo, apparati e risorse per continuare a operare nelle regioni non differenziate; un trasferimento di risorse finanziarie e di beni pubblici iniquo perché legato alla spesa storica: poiché le regioni ricche hanno fin qui speso di più, terranno per sé il surplus, con buona pace della perequazione solidaristica tra le diverse parti del territorio nazionale.
L’articolo 116, comma 3, contenuto nella riforma del Titolo V che il centrosinistra approvò, da solo, nel 2001, fu un occhio strizzato al centro destra per dimostrare un’apertura su uno dei temi, il federalismo, da sempre campo di battaglia della Lega. Una norma sbagliata e imprecisa, nei contenuti e nelle procedure (che escludono quasi del tutto il parlamento). Una norma nata già vecchia, ispirata all’idea di avvicinare alcune regioni al regime delle regioni a statuto speciale, proprio quando la specialità, come attuata fino ad allora, mostrava gravissimi limiti, soprattutto per i privilegi finanziari sproporzionati e immotivati riconosciuti a regioni ricche o per il sovradimensionamento degli apparati amministrativi (soprattutto in Sicilia).
Il programma
Il problema è che oggi, nei programmi di una destra che si considera già vincente e pronta a cambiare da sola la Costituzione, l’autonomia differenziata viene agitata come bandiera e presentata come il compromesso tra il presidenzialismo (voluto da FdI, per assicurare, si dice, stabilità e autorevolezza dello stato centrale) e il tanto agognato federalismo. L’esplicita volontà di mettere le mani sulla Costituzione apre la strada a un’autonomia differenziata di cui oggi l’elettore non conosce i limiti.
Ma, ancora più inquietante, le due proposte si accompagnano con quella della flat tax, apertamente in contrasto con la progressività imposta dall’articolo 53 della Costituzione. La miscela è esplosiva. Il presidenzialismo non serve a rafforzare lo stato centrale, anzi: il presidente eletto è, ovunque, un uomo di parte, non in grado di garantire l’unità nazionale. Le regioni a diversa maggioranza politica saranno portate a ostacolarne l’azione (come avviene oggi negli Stati Uniti). La flat tax, con la drastica riduzione delle entrate fiscali, non solo colpirebbe al cuore lo stato sociale (per tutti i cittadini meno abbienti, anche al nord), ma renderebbe impossibile la perequazione tra territori a diverso sviluppo.
Perseverare nell’errore compiuto nel 2001 e aggravato dalla copertura politica data da regioni di centrosinistra risulta, oggi, incomprensibile. Una proposta: il centrosinistra dichiari che, una volta al governo, non darà seguito a nessuna attuazione pattizia di una norma costituzionale che sarebbe o da rivedere (in un quadro di correzione costituzionale necessariamente bipartisan) in modo radicale (nel senso della piena garanzia dell’uguaglianza dei cittadini); o, meglio ancora, da abrogare.
Si provi a superare questa decrepita idea di differenziazione, con regioni che gonfiano i propri apparati alla bulimica ricerca di nuove competenze e risorse, a scapito dello stato e di comuni e province. Servono, invece, regioni alla ricerca, dappertutto, di strade diverse di innovazione amministrativa per la più efficace (ed economica) tutela dei diritti fondamentali dei cittadini.
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