- La scelta dello stato di pagare al concessionario controllato dai Benetton una somma ingentissima (9,1 miliardi) di “buonuscita”, a fronte di comportamenti inaccettabili, è indifendibile.
- La privatizzazione delle Autostrade è stata avviata, nel 1999, con logiche regolatorie indifendibili come quella di creare un’impresa dominante “artificiale”, affidando in solido ad un unico concessionario (Autostrade per l’Italia, Aspi) i due terzi più redditizi della rete (3.000 chilometri circa).
- Non erano presenti economie di scala che giustificassero questa infelice scelta, come è stato rigorosamente dimostrato dal regolatore indipendente dei trasporti (Art, costituito solo anni dopo, e tenuto comunque per altri anni al di fuori del settore autostradale).
Stefano Feltri ha argomentato qui la palese indifendibilità del pagamento al concessionario Benetton da parte dello Stato di una somma ingentissima (9,1 miliardi) di “buonuscita”, a fronte di comportamenti inaccettabili.
Una spiegazione certo non tecnica ma verosimile per questa “generosità” potrebbe essere riconducibile a forti sensi di colpa per essere lo Stato risultato sia un controllore connivente, che per aver garantito al concessionario profitti ventennali del tutto incongrui a danno degli utenti. Lo Stato non processa se stesso, vuole solo metterci sopra una solida pietra.
Ma esistono elementi tecnici di non minore rilevanza per valutare come indifendibile quel modello gestionale, e quegli elementi erano presenti fin dall’inizio dell’operazione di affidamento in concessione ai privati della parte della rete stradale di maggiore qualità (a suo tempo anche lo scrivente provò invano a metterli in luce).
Non è efficiente che i costi di investimento delle infrastrutture (monopoli naturali) siano a carico degli utenti. Se si devia da questo principio, è opportuno farlo nella stessa misura per tutte le infrastrutture. I problemi ambientali non devono essere inseriti nelle forme di finanziamento degli investimenti, vi sono strumenti molto più efficaci ed efficienti, come indica la stessa Commissione europea.
Ma quale complessità?
Le ferrovie, per esempio, sono interamente a carico delle casse pubbliche, in Spagna all’autostrada del Sud è stato tolto il pedaggio perché totalmente ammortizzata, in Germania le autostrade non hanno mai avuto pedaggi, in Francia il sistema dei pedaggi ha dato pessimi risultati.
In Italia i pedaggi autostradali in generale coprono la totalità dei costi di investimento e di esercizio, cioè pagano tutto gli utenti.
Nessun contributo di rilievo può derivare dall’apporto del “know how” privato in un settore “maturo”, e a bassa tecnologia sia in fase di costruzione che di gestione: le autostrade non sono troppo diverse dalle strade ordinarie, e vi sono “superstrade” pubbliche totalmente indistinguibili da autostrade.
Nulla di paragonabile alla complessità tecnologica di un sistema ferroviario. Se era innovazione che si voleva, era meglio iniziare dalle ferrovie.
E’ evidente che si vuole invece mantenere a carico degli utenti il sistema, data la loro alta disponibilità a pagare: si pensi al sommarsi di pedaggi e di accise sui carburanti tra le più elevate del mondo, che non hanno minimamente attenuato la rapida motorizzazione del paese.
Si è così inutilmente separato un segmento della rete stradale dal resto, impedendo sia una pianificazione unitaria degli investimenti, che una coerente gestione tariffaria della domanda, soggetta così a costi e logiche del tutto diverse.
Oggi poi, dopo la crescita del traffico locale che ha superato di molto quello di lunga distanza (75-25 per cento), la necessità di strategie integrate emerge come irrinunciabile: sulla rete autostradale oggi prevale il traffico regionale, mentre le logiche di investimento e i pedaggi sono concepiti per le lunghe distanze e l’autofinanziamento.
Il peccato originale
La privatizzazione delle Autostrade è stata avviata, nel 1999, con logiche regolatorie indifendibili come quella di creare un’impresa dominante “artificiale”, affidando in solido ad un unico concessionario (Autostrade per l’Italia, Aspi) i due terzi più redditizi della rete (3.000 chilometri circa). Non erano presenti economie di scala che giustificassero questa infelice scelta, come è stato rigorosamente dimostrato dal regolatore indipendente dei trasporti (Art, costituito solo anni dopo, e tenuto comunque per altri anni al di fuori del settore autostradale).
L’analisi di Art individua intorno ai 300 chilometri di rete la soglia al di sotto della quale possono verificarsi diseconomie di gestione di qualche rilievo. Affidare in concessione reti di queste dimensioni o poco superiori con gare credibili (uno “spezzatino” per aumentare la concorrenza) avrebbe evitato un grave problema di potere implicito (“clout regolatorio”) di un’impresa dominante per cui non c’era alcuna giustificazione economica, quale è risultata Aspi.
Anche la dominanza ottenuta sul mercato (cioè con prodotti migliori e/o prezzi inferiori) è di per sé fonte di problemi regolatori, ma almeno gli utenti ne traggono qualche beneficio nella prima fase: crearne per via politica appare davvero ingiustificabile. E c’è da sperare che solo di un errore tecnico si sia trattato, e non di interessi di altra natura.
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