- 16 ottobre 1968. Alle Olimpiadi di Città del Messico i velocisti Tommy Smith e John Carlos alzano il pugno al cielo. Un atto rimasto impresso nella memoria, non solo degli afroamericani.
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Se uno riguarda quella vecchia foto intuisce quanto il gesto di allora tutto fosse meno che un’improvvisata o un rito stanco da esibire in favore di camera. In quei pugni levati prima di tutto c’era una coscienza.
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Avrei preferito anch’io vedere tutti e undici i campioni in azzurro aderire a una campagna di giustizia per ogni essere umano, e so che la cosa più preziosa sarebbe poter cogliere quel gesto come un bisogno.
Quando alle Olimpiadi di Città del Messico, era il 16 ottobre 1968, Tommy Smith e John Carlos alzarono il pugno al cielo, forse neppure tutti i genitori dei nostri undici talenti calcistici impegnati agli Europei erano nati. Più o meno nelle stesse settimane a Milano e Trento si occupavano le università mentre l’autunno caldo era prossimo a venire. Tommy Smith vinse l’oro fissando il record del mondo sulla distanza dei 200 metri: 19 secondi e 83 centesimi. Sempre a Città del Messico, undici anni dopo, quel tempo lo avrebbe abbassato Pietro Mennea col suo incredibile 19’’72.
Il gesto dei due, Smith e Carlos, transitò in un lampo dalla cronaca alla storia. Con una foto senza tempo a immortalare entrambi: presi di fianco, la testa abbassata e il pugno guantato spinto verso l’alto. Smith il braccio destro, Carlos il sinistro, e pare che a ragione della simmetria vi fosse l’aver dimenticato il secondo di portarsi i guanti rimediando all’ultimo uno dei due di proprietà dell’amico.
Dal villaggio olimpico finirono espulsi la sera stessa anche per volontà di un vecchio arnese del Cio con trascorsi non commendevoli risalenti niente meno che alla buffonata hitleriana di Berlino nel 1936. L’atto in sé, invece, sarebbe rimasto impresso nella memoria, non solo quella degli afroamericani. Il secondo arrivato in quella corsa, a modo suo memorabile, non ha conosciuto eguale notorietà anche se i tre saliti sul podio cementarono una complicità durata decenni. La medaglia d’argento era un atleta australiano, si chiamava Peter Norman. Una volta rientrato a casa qualche polemica investì pure lui criticato per essersi appuntato al petto una spilla del movimento.
Cosa avrebbe fatto Peter Norman?
Dunque, ottobre 1968: vuol dire tre anni e mezzo dopo la marcia di Selma, 7 marzo 1965: l’evento simbolo della lotta per i diritti civili in un’America ancora “profonda”. Ma anche sei mesi dall’uccisione di Martin Luther King e quattro dalla morte di Bob Kennedy. Insomma era un evento collocato in un tempo unico per le tragedie vissute e la spinta impetuosa di un moto di rivolta e liberazione che quella sfida sarebbe riuscita a vincerla, almeno sul fronte legislativo anche se neppure le leggi avrebbero impedito a un poliziotto di cercare l’anima del povero George Floyd con un ginocchio piantato sul collo.
Peter Norman se ne è andato nel 2006, nel sobborgo di Melbourne dove viveva. Smith e Carlos sono volati a salutarlo e c’è una foto che li ritrae mentre reggono la bara di quell’amico per caso “reclutato” su una pista d’atletica e partecipe di quella lotta divenuta anche sua. E siamo al punto che mi premeva pensando a qualche polemica sorta dopo che cinque nostri calciatori si sono inginocchiati al pari degli undici gallesi aderendo all’appello di Black lives matter (Le vite dei neri contano), mentre altri sei loro compagni sono rimasti in piedi.
Ora, senza dubbio Smith e Carlos non ci avrebbero pensato un attimo a inginocchiarsi. Chissà cosa avrebbe fatto Peter Norman. Forse si sarebbe genuflesso anche lui rinnovando lo spirito della spilla sulla tuta nella notte messicana. E però se uno riguarda quella vecchia foto intuisce quanto il gesto di allora tutto fosse meno che un’improvvisata o un rito stanco da esibire in favore di camera.
In quei pugni levati prima di tutto c’era una coscienza, la consapevolezza di un odio razziale duro da estirpare e che sentiva tutta l’urgenza di una lotta da condurre usando anche il proprio corpo se lo scopo era abbattere muri e barriere. E questo, alla fine, dovrebbe contare no?
Certo, avrei preferito anch’io vedere tutti e undici i campioni in azzurro aderire a una campagna di giustizia per ogni essere umano, e so che la cosa più preziosa sarebbe poter cogliere quel gesto come un bisogno. Perché sarebbe la conferma anche dentro l’ambiente ovattato di uno sport vissuto ai massimi livelli del perché sia stato possibile una vita fa che due sprinter americani abbiano bruciato in velocità persino i pregiudizi più odiosi.
Se accadde allora può accadere di nuovo, e allora sì, quel gesto di chinarsi sul prato sotto lo sguardo di mezzo mondo avrebbe la forza di restituire alla vita di tanti, e alla memoria del cittadino George Floyd, il senso profondo del rispetto e della dignità.
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