Il ballottaggio è una variante dei sistemi elettorali a due turni. Questi sistemi richiedono che al primo turno sia dichiarato vincente colui/colei che ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti espressi. Altrimenti si svolge un secondo turno di votazioni al quale sono ammessi/e coloro che soddisfano i criteri predefiniti: i primi due, oppure tutti coloro che hanno ottenuto una certa percentuale di voti, oppure chi si trova fra i primi tre, quattro, cinque più votati, e così via.

Peraltro, nella Terza Repubblica francese il doppio turno utilizzato era del tutto aperto, vale a dire che non solo potevano passare al secondo turno tutti i candidati presentatisi al primo turno, ma erano ammesse anche nuove candidature. Assolutamente fuori luogo e sbagliato è parlare di ballottaggi quando le candidature rimaste in lizza sono più di due. Meglio, ma anche no, essere creativi: trilottaggi, tetralottaggi, eccetera.

Dagli Usa all’Argentina

Il ballottaggio è la modalità assolutamente prevalente nel caso di elezioni a cariche monocratiche: sindaci, governatori negli Stati Uniti, presidenti della Repubblica, ma non in Usa e, per esempio, non in alcune repubbliche presidenziali, come l’Argentina, dove è sufficiente il 45 per cento oppure anche solo il 40 per cento purché, clausola importantissima, con un vantaggio del 10 per cento sul secondo classificato.

Non esiste nessun primo ministro eletto direttamente dai suoi concittadini, pardon, dal popolo. Sarebbe, comunque, auspicabile che la sua elezione fosse affidata a un sistema che preveda il ballottaggio. Ne va in buona misura della sua rappresentatività e della sua legittimità. Dovendo, per essere eletto, ottenere la maggioranza assoluta dei votanti, avrebbe l’obbligo, compatibilmente con la sua posizione di partenza, di diventare il più rappresentativo possibile. Più ampia la rappresentatività, più forte la legittimità.

L’esistenza del ballottaggio ha una molteplicità di implicazioni per tutti i protagonisti: dirigenti dei partiti; candidati; elettori.

Francia 2002

La prima implicazione è che al primo turno la quasi totalità dei dirigenti dei partiti vorrà presentare una candidatura per “contare” i suoi elettori e per farli eventualmente “valere” appunto al ballottaggio, quando li inviterà a dare il voto al candidato preferito ovvero, comunque, meno sgradito. Ricorro a un unico esempio, estremo, ma proprio per questo di straordinario interesse.

Nelle elezioni presidenziali francesi del 2002 la proliferazione di candidature a sinistra – un comunista, qualche trotskista, due ecologisti, un socialista dissidente – ebbe un impatto devastante su Lionel Jospin, candidato ufficiale del Parti Socialiste che, per 200mila voti, risultò escluso dal ballottaggio a favore dell’estremista di destra Jean-Marie Le Pen.

Prima lezione del sistema con ballottaggio: fin dal primo turno bisogna tentare di evitare la frammentazione di uno schieramento. Anche il successivo ballottaggio fra Le Pen e il presidente in carica, il gollista Jacques Chirac, produsse riflessioni e azioni del massimo interesse per chi vuole capire la logica e la dinamica del ballottaggio. Privi di un candidato sul quale avrebbero potuto convergere, gli elettori che si consideravano di sinistra, dirigenti e militanti, in particolare, ma non solo, del Parti Socialiste, si trovarono a un bivio: trincerarsi dietro la formula pilatesca “né l’uno né l’altro” oppure dare indicazione di voto.

Nel primo caso avrebbero lasciato tutto il rischio della sconfitta e tutto il merito della vittoria a Chirac. Invece, annunciando il voto a favore del presidente gollista contro lo sfidante di estrema destra, avrebbero potuto contarsi, al tempo stesso dando anche mostra di grande generosità politica e (ri)affermando il principio fondamentale della disciplina repubblicana: nessuna apertura a destra, nessuna accondiscendenza con la destra. In Italia l’equivalente non sarebbe la conventio ad excludendum che veniva esercitata nei confronti sia dei neofascisti sia dei comunisti, ma piuttosto la pregiudiziale antifascista.

L’esito del ballottaggio francese dimostrò con i numeri che a Le Pen non riuscì nessuno sfondamento, ma la conquista di appena qualche centinaio di migliaia di voti in più, mentre i voti ottenuti da Chirac corrisposero in maniera sostanziale alla somma dei suoi gollisti più quelli delle inquiete e troppo sparse membra della sinistra. Il ballottaggio servì agli elettori che si erano spappolati al primo turno per dimostrare di avere imparato la lezione e di saperla mettere in pratica.

Spiegare i programmi

In effetti, questo dell’apprendimento è un ulteriore elemento positivo del ballottaggio. Nelle due settimane intercorrenti fra il primo voto e il secondo, entrambi i candidati rimasti in lizza debbono impegnarsi a fondo nello svolgimento del compito più bello della politica.

Sono tre gli adempimenti che lo sostanziano: spiegare il programma facendo risaltare originalità e priorità delle politiche proposte; raggiungere il maggior numero di elettori compatibilmente con alcuni valori irrinunciabili; evidenziare le caratteristiche, non solo politiche, ma anche personali, che lo/la rendono la scelta preferibile, migliore nelle condizioni date.

Al suo specifico livello qualsiasi ballottaggio usufruisce di notevole visibilità e, attraverso gli operatori dei mass media, anche i peggio attrezzati e i meno obiettivi, spinge verso la trasparenza. La competizione ostacola e impedisce trame oscure che i più politicizzati degli operatori hanno tutto l’interesse a denunciare.

Infine, l’esito non è qualcosa che possa essere sottovalutato o addirittura trascurato nella valutazione politica complessiva del ballottaggio. Matematicamente vince chi ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti espressi. Detto altrimenti, la maggioranza assoluta dei votanti produce la vittoria del candidato preferito ovvero, a ogni buon conto, meno sgradito.

In democrazia, la maggioranza assoluta conferisce logicamente e politicamente legittimità a colui/colei che l’ha ottenuta e che, in qualche modo, dovrà tenerne conto nel suo operato. Anche se, per lo più, gli eletti/e si affrettano a dichiarare “sarò il/la presidente di tutti”, nella pratica non sarà così, ma il buon proposito rimane significativo e avrà qualche incidenza sui comportamenti concreti, tutti da registrare, studiare, soppesare e valutare.

Critiche da destra

Molte voci critiche del ballottaggio si sono levate dal centro-destra, i cui candidati, spesso, ma nient’affatto regolarmente (non disponiamo di dati affidabili a causa della straordinaria varietà delle situazioni: candidature, loro provenienza, loro alleanze), risultano o risulterebbero sconfitti nei ballottaggi.

Più spiegazioni, spesso caso per caso, spesso idiosincratiche, sono plausibili e possibili per ciascuna e per tutte queste sconfitte, anche che le candidature delle destre non sanno andare oltre il loro perimetro di partenza. Le destre italiane scelgono come spiegazione prevalente la propensione opportunistica del centro-sinistra a dare corpo a grandi ammucchiate, alleanze confuse e pasticciate, a sostegno dei suoi candidati pervenuti al ballottaggio.

Questa è proprio la logica su cui si fonda il ballottaggio: consentire agli elettori di “ammucchiarsi” dietro la candidatura meno sgradevole/sgradita. Grazie a Matteo Salvini e al suo «Quando il popolo vota ha sempre ragione» (se vota due volte ha doppiamente ragione), è plausibile rovesciare la valutazione delle destre.

Lungi da qualsiasi manipolazione, il ballottaggio è un efficace dispensatore di risorse politiche, che vanno dall’aumento di informazioni alla trasparenza della competizione e dei sostenitori, lobby incluse, alla facoltà di cambiare voto con riferimento all’offerta dei candidati. Non è poco. Chi vuole elettori interessati, informati e partecipanti (chi non vota non conta) deve elogiare incondizionatamente il ballottaggio e battersi per preservarlo.

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