Non è certo il principale dei problemi che affliggono il Pd. Tuttavia, anche a me non ha convinto la pur bella immagine dello sguardo di Berlinguer sulla tessera del Pd. Sì, certo, anche a motivo del vulnus alla costitutiva radice pluralistica del partito, al cui atto di nascita hanno concorso più culture e tradizioni politiche. Anche se non avrei posto la questione nei termini nei quali l’hanno sollevata Castagnetti o Guerini: perché non anche Sturzo, De Gasperi, Moro? Un modo doppiamente discutibile. Sia perché suona un po’ patetico e subalterno (a ciascuno il proprio santino), sia perché, se proprio si vuole seguire quello schema federativo/duale, ancora mancherebbe la tradizione liberal-democratica, che, segnalo, era evocata esplicitamente nella sigla della Margherita ovvero “Democrazia è libertà”.
Del resto, a riprova degli equivoci comunicativi di obiezioni così formulate, notavo due dettagli significativi: La Repubblica parla di obiezioni di «ex cattolici» (anziché ex Dc, salvo abbiano avuto una conversione religiosa...); il Foglio di «moderati» opposti a «progressisti». Obietto: sicuri che su pace e guerra i cattolici (Papa in primis) siano più «moderati» di chi si è forgiato nella cultura comunista (mai ascrivibile al pacifismo in senso proprio)? Non c’è verso, in Italia, di imparare a distinguere con cura tra religione e politica. Da parte dei media, ma anche dei protagonisti.
Le mie personali riserve sono altre, meno rivendicative e, per certi versi, più sostanziali. La prima: Berlinguer è figura carismatica e affascinante, egli fu un leader coraggioso che spinse sino all’estremo limite i tratti peculiari e l’autonomia nazionale del Pci. Ma dentro la tradizione comunista nel quadro della guerra fredda. Pena minimizzare la portata della svolta operata da Occhetto. Il Pd non poteva nascere prima della caduta del muro. La seconda: è facile supporre che, in questa congiuntura, l’evocazione di Berlinguer sia da mettere in relazione con la cosiddetta “questione morale”. Anche qui attenzione alla subalternità e all’occasionalismo. Ma soprattutto la questione al tempo posta da Berlinguer era un po’ diversa: nella famosa intervista a Scalfari il cuore del problema era l’occupazione della società e delle istituzioni da parte dei partiti. Oggi – esagero per farmi intendere – semmai il problema sta nella scomparsa più che nell’invadenza di partiti degni di questo nome, della loro riduzione a comitati elettorali a supporto di leader, mezzi leader, ras territoriali. Non è la stessa cosa.
Terza riserva: sia chiaro, sono straconvinto che, a fronte della politica “leggera” di oggi tutta affidata alla comunicazione e al marketing, sia doveroso reagire scavando alle radici delle culture politiche di lunga durata che hanno forgiato la nostra democrazia e ai suoi protagonisti. Ma questo lo si fa con gli strumenti e nei luoghi a ciò deputati. Vistosamente assenti. Non appunto ricorrendo alla scorciatoia di semplici immagini evocative. Quarto: un partito ambizioso dovrebbe declinare la propria identità al futuro, non al passato. Sotto questo profilo la segretaria Pd, per ragioni generazionali e culturali, ha carte da giocare. Specie presso i giovani e le donne, due fronti tradizionalmente problematici per i partiti in genere e per quelli di sinistra in ispecie. Una chance, una opportunità ascrivibile alla circostanza – lo segnalo agli ex Dc – che il profilo personale e politico-culturale di Schlein è, nel bene o nel male (scegliete voi), lontanissimo dal paradigma comunista. Di nuovo: motivazioni e bersaglio vanno meglio calibrati.
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