- La proposta di Blanchard, Leandro e Zettelmeyer, rischia di tornare al sistema tolemaico rispetto alla questione del debito e alla sostenibilità. Quello che serve è mediare tra diverse linee di politica economica e a decidere dovrebbero essere parlamento europeo e Ecofin.
- La responsabilità politica è anche il tema che ci induce a dissentire riguardo alle procedure previste per l’applicazione del limite europeo alla politica fiscale demandate a procedure di infrazione o corte di giustizia.
- Non è più il tempo di eludere le domande fondamentali sull’assetto istituzionale europeo, ma di rispondere ad esse.
Quando all’inizio della pandemia i ministri dell’economia dell’Unione europea decisero di attivare la general escape clause (clausola di sospensione) del Patto di stabilità e crescita, si impegnarono anche a riattivarlo non appena le circostanze lo avessero reso possibile.
A distanza di un anno sembra ormai chiaro che quella che doveva essere una sospensione temporanea costituirà piuttosto una transizione verso un nuovo assetto di norme. Infatti, se il patto di stabilità dovesse essere riattivato, le contrazioni fiscali a cui molti stati membri sarebbero sottoposti si rivelerebbero presto insostenibili. Non sorprende quindi che si sia iniziato a parlare seriamente di una sua riforma.
Audace, ma non abbastanza
Tra le varie proposte già avanzate, quella di Blanchard, Leandro e Zettelmeyer è forse la più audace, anche se probabilmente non lo è abbastanza. In un paper presentato già nello scorso ottobre, essi sviluppano una critica spietata alle attuali regole fiscali dell’Unione, considerate sorpassate, inadeguate, eccessivamente complesse e difficili da far rispettare. Essi affermano che non sia più sufficiente una riforma graduale del patto di stabilità; ciò di cui c’è bisogno è una vera e propria rivoluzione copernicana. Ma come dovrebbe essere ripensato il coordinamento europeo delle politiche fiscali?
A loro dire, si dovrebbe passare da un sistema basato su una combinazione di regole rigorose e sanzioni flessibili, a un sistema di norme flessibili e sanzioni rigorose. Più nello specifico, il nuovo assetto istituzionale sarebbe imperniato su quattro assi portanti: gli stati membri non sarebbero più sottoposti a regole rigide (come ad esempio il parametro del tre per cento del rapporto deficit/pil), ma dovrebbero poter perseguire i propri obiettivi di politica fiscale scontando solo il limite generale della sostenibilità del debito. Questo principio sarebbe specificato attraverso norme ispirate a un metodo di calcolo della sostenibilità del debito definito Stochastic Debt Sustainability Analysis (Sdsa).
La sorveglianza dei bilanci nazionali da parte delle istituzioni europee sarebbe limitata alla sola dimensione del disavanzo, senza alcuna possibilità di prescrivere o impedire l’approvazione di specifiche misure di politica economica o sociale. Il rispetto del limite europeo sarebbe assicurato dall’intervento preventivo di Consiglio europeo o, in alternativa, di una sezione ad hoc della Corte di giustizia, con la possibilità di precludere l’approvazione di un bilancio che metta a repentaglio la sostenibilità del debito.
Ciascuno di questi aspetti merita un approfondimento. Anzitutto, il fatto che gli stati membri riacquistino spazi significativi per sviluppare le proprie politiche economiche e fiscali è senz’altro una novità importante. Se il limite è la sola sostenibilità del debito, politiche dirette al finanziamento di investimenti pubblici o al sostegno della domanda potrebbero tornare a essere possibili, a maggior ragione se si impedisce alle istituzioni europee di porre il veto o imporre specifiche misure (siano esse espansive o restrittive) agli stati membri che non intendano approvarle.
Dato atto di questi importanti passi in avanti, il riferimento alla sostenibilità del debito suscita notevoli perplessità. È noto infatti che allo stato attuale la sostenibilità del debito pubblico di molti paesi europei è garantita dagli interventi della Banca centrale europea. Da qualche tempo la stessa Bce ha iniziato a ripensare il proprio ruolo al fine di contribuire alla lotta alla deflazione e alla transizione ecologica.
Rispetto a questi sviluppi la proposta di Blanchard è stranamente reticente. In particolare, l’enfasi posta sulla sostenibilità del debito sembra alludere ad un ritorno alla “vecchia normalità”, ovvero a quando la banca centrale non interveniva a sostegno dei debiti statali e l’unica forma di assistenza finanziaria possibile era quella, assistita da condizionalità, del Mes. Se questa fosse la reale intenzione degli autorevoli economisti, la proposta si collocherebbe ancora nel sistema tolemaico dei trattati vigenti e perderebbe gran parte del proprio fascino.
Un ulteriore aspetto poco convincente riguarda la Sdsa, ovvero la metodologia per calcolare la sostenibilità del debito. Blanchard e colleghi presentano questo metodo allo stesso modo con cui Fiorello la Guardia parlava della pulizia delle strade a New York: non esisteva un modo democratico o repubblicano per farla. Ebbene, l’esperienza degli ultimi anni ci insegna che la sostenibilità del debito non è per niente un esercizio neutrale, come comprovato dal dibattito esistente sul punto tra gli economisti.
Pertanto, se la sostenibilità del debito è un concetto su cui è legittimo avere opinioni diverse, ciò di cui abbiamo bisogno non è tanto un sistema per imporre la “metodologia giusta”, ma di un sistema per mediare il conflitto tra diverse linee di politica economica. Con questo intendiamo dire che se la decisione sulla sostenibilità del debito è squisitamente politica, l’individuazione del metodo di calcolo dovrebbe essere lasciata interamente alle istituzioni politiche competenti (nell’Ue, il parlamento europeo e l’Ecofin).
La responsabilità politica è anche il tema che ci induce a dissentire riguardo alle procedure previste per l’applicazione del limite europeo alla politica fiscale. Nella proposta si esprime una netta preferenza per la procedura di infrazione e per un intervento finale della Corte di Giustizia, apprezzata in particolare per l’indipendenza e la capacità di sviluppare un corpus coerente di precedenti. Molte sono le riserve che si possono formulare a questo riguardo. Anzitutto, la procedura di infrazione non è per niente un meccanismo neutrale e imparziale, visto che l’iniziativa della Commissione è completamente discrezionale e i rapporti con gli stati membri si svolgono in negoziazioni diplomatiche che spesso si chiudono con un qualche compromesso prima di approdare alla Corte di giustizia. In secondo luogo, la stessa idea di coinvolgere la Corte nell’applicazione delle norme fiscali è discutibile.
Gli autori stessi riconoscono che la Corte di giustizia non è dotata delle competenze richieste ad applicare la Sdsa (o una metodologia equivalente) e dubitiamo fortemente che una camera specializzata risolverebbe questo problema. Qualora un caso di questo tipo dovesse mai raggiungere la Corte, i giudici si troverebbero o a dover deferire rispetto ai giudizi delle istituzioni europee competenti in materia o a doversi esporre su questioni che da sempre sono prerogativa delle istituzioni democratiche. La saga giudiziaria sul quantitative easing qualcosa dovrebbe aver insegnato.
La proposta di Blanchard e i suoi autori è un importante punto di riferimento nel dibattito sulla riforma del patto di Stabilità. Tuttavia, ci sono molte ragioni che dovrebbero indurre a prendere il toro per le corna e formulare proposte più radicali.
La pandemia ha dimostrato se ce n’era bisogno quanto la politica fiscale sia un ambito decisivo che difficilmente può essere sottoposto a controllo tecnocratico. Invece di mascherare la politicità intrinseca a questa materia attraverso norme o standard discutibili come la Sdsa, abbiamo bisogno di riscoprirne l’inevitabilità e di sottoporla all’unico sistema capace di conferire a essa legittimità: il controllo democratico. Siamo consapevoli che questa conclusione possa suscitare domande di portata fondamentale riguardanti la legittimazione politica e sociale delle istituzioni europee per le quali la risposta non è per niente ovvia. Ma pensiamo che non sia più il tempo di eludere le domande fondamentali, ma di rispondere ad esse.
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