- Prima: sciogliere il partito. La reazione emotiva a caldo è (quasi) comprensibile ma è irrazionale e soprattutto dannosa (se realizzata) se non altro perché il Pd è una delle due maggiori forze di opposizione in parlamento e il suo scioglimento sarebbe un danno enorme alla tenuta democratica.
- Seconda: rottamare gli attuali dirigenti per lasciar spazio a chi sta fuori dagli incarichi di partito. Si tratta di una riedizione della barbarica logica renziana.
- Terza: auto-candidature e corsa alla segreteria già partita nella notte del 25 settembre. E’ il segno della condizione pietosa in cui si trova questo partito, usato come un taxi da chi vuole approfittare del sconfitta elettorale per farsi largo.
Cominciamo da una constatazione, non consolatoria ma empiricamente comprovabile: il Partito democratico migliora di mezzo punto rispetto alle elezioni del 2018, quelle che segnarono il vero e più drammatico crollo. Rispetto a quel crollo si è assestato.
Circa gli altri partiti, a parte Fratelli d’Italia che ha sbancato, tutti hanno avuto flessioni, spesso drammatiche. Lo stesso si può dire anche dei Cinque stelle, il cui risultato va paragonato (come per il Pd e per gli altri partiti) a quello del 2018, non alla percezione di crollo sotto i dieci punti che si paventava.
I Cinque stelle registrano un consolidamento nel sud del paese, che è lo zoccolo duro del partito di Giuseppe Conte, così come i voti vicino al 20 per cento sono lo zoccolo duro del Pd.
Epperò è giusto dire che il Pd ha perso. Ha perso perché non ha fermato la coalizione di destra. E ha perso per non aver ponderato la logica della camicia di forza nella quale questo sistema elettorale ingabbiava i competitori: la costrizione cioè ad attivare “alleanze elettorali”.
Dove si va da qui? Vorrei commentare le quattro risposte emerse in questi giorni post-elettorali. Solo una è convincente.
Prima: sciogliere il partito. La reazione emotiva a caldo è (quasi) comprensibile ma è irrazionale e soprattutto dannosa (se realizzata) se non altro perché il Pd è una delle due maggiori forze di opposizione in parlamento e il suo scioglimento sarebbe un danno enorme alla tenuta democratica, che si misura non solo dall’accettazione di perdere (come è ovvio) ma poi anche dall’esercizio dell’opposizione.
Se il Pd si scogliesse, dove andrebbero i suoi parlamentari? E ai milioni cittadini che l’hanno votato che cosa resterebbe in termini di rappresentanza? E che opposizione al governo?
Seconda: rottamare gli attuali dirigenti per lasciar spazio a chi sta fuori dagli incarichi di partito. Si tratta di una riedizione della barbarica logica renziana, che è tra l’altro suicida per ogni partito che la subisce: genera guerra civile e distrugge il partito come unità di intenti o non lo ricostruisce.
E poi perché chi viene da fuori con l’ambizione di governare il partito dovrebbe essere più valido o etico o rappresentativo?
Terza: auto-candidature e corsa alla segreteria già partita nella notte del 25 settembre. E’ il segno – questo sì – della condizione pietosa in cui si trova questo partito, usato come un taxi da chi ha molta ambizione e mediocre carisma o rappresentatività e che vuole approfittare del sconfitta elettorale per farsi largo. Questa soluzione è forse quella che potrebbe meglio riuscire a questo partito (magari legittimata dalla ritualità di un congresso), ma sarebbe la sua condanna a restare un partito indigesto e alla fine perdente.
Quarta: un processo costituente che tenga insieme due obiettivi radicali e necessari: cambiare lo statuto e fare chiarezza su idee e programma e identità.
Cambiare lo statuto
Lo statuto attuale è stato pensato sul modello di un’azienda e identifica il segretario del partito con l’amministratore delegato e la segreteria con il consiglio di amministrazione che il segretario sceglie dosando le quote e i capi fazione.
Serve uno statuto che ridisegni gli organismi interni, che riporti collegialità (l’uomo solo al comando lega il partito alle elezioni e genera permanente instabilità), che avvicini i cittadini e voglia riconquistare iscritti.
Circa le idee e i programmi, essi servono non a fare proclami ma a dire a quale parte della società si vuole prima di tutto parlare, con quale cercare alleanze e con quale no.
Per un partito radicalmente progressista, società democratica vuol dire: servizi sociali primari pubblici e universali (educazione e sanità); politiche di emancipazione dalla povertà e dal lavoro mal pagato (ovvero sì il reddito di cittadinanza, ma come segno di un problema da superare); progetti di riconversione ecologica che guardino al Paese intero e che guardino lontano.
Politiche che considerino il Paese come unitario, e quindi trattino tutti i cittadini e le cittadine come parte della stessa unica democrazia, non abitanti in regioni con diversi pesi e privilegi.
Politiche di rispetto delle minoranze e di inclusione, non di tolleranza in negativo dei diversi e non infine di assistenza ai poveri – i poveri non dovrebbero esserci, e politiche di sinistra serie devono porsi questo obiettivo. Tollerare la povertà è immorale oltre che antidemocratico.
Ciò significa, appunto, non poter state con tutti: far pagare le tasse a chi non le paga e farle pagare in ragione progressiva.
Questa sarebbe una progettualità politica democratico-sociale o socialista democratica. Non è ecumenica. Ma il partito – ogni partito—è tale perché di parte, non ecumenico.
Solo così contribuisce al bene generale. Insomma: ricostituzionalizzare il partito per ristabilire unità nell’identità ideale e politica, e per ricreare le condizioni di patriottismo nel partito.
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