Cominciamo da una constatazione, non consolatoria ma empiricamente comprovabile: il Partito democratico migliora di mezzo punto rispetto alle elezioni del 2018, quelle che segnarono il vero e più drammatico crollo. Rispetto a quel crollo si è assestato.

Circa gli altri partiti, a parte Fratelli d’Italia che ha sbancato, tutti hanno avuto flessioni, spesso drammatiche. Lo stesso si può dire anche dei Cinque stelle, il cui risultato va paragonato (come per il Pd e per gli altri partiti) a quello del 2018, non alla percezione di crollo sotto i dieci punti che si paventava.

I Cinque stelle registrano un consolidamento nel sud del paese, che è lo zoccolo duro del partito di Giuseppe Conte, così come i voti vicino al 20 per cento sono lo zoccolo duro del Pd.

Epperò è giusto dire che il Pd ha perso. Ha perso perché non ha fermato la coalizione di destra. E ha perso per non aver ponderato la logica della camicia di forza nella quale questo sistema elettorale ingabbiava i competitori: la costrizione cioè ad attivare “alleanze elettorali”. 

Dove si va da qui? Vorrei commentare le quattro risposte emerse in questi giorni post-elettorali. Solo una è convincente.

Prima: sciogliere il partito.  La reazione emotiva a caldo è (quasi) comprensibile ma è irrazionale e soprattutto dannosa (se realizzata) se non altro perché il Pd è una delle due maggiori forze di opposizione in parlamento e il suo scioglimento sarebbe un danno enorme alla tenuta democratica, che si misura non solo dall’accettazione di perdere (come è ovvio) ma poi anche dall’esercizio dell’opposizione.

Se il Pd si scogliesse, dove andrebbero i suoi parlamentari? E ai milioni cittadini che l’hanno votato che cosa resterebbe in termini di rappresentanza? E che opposizione al governo?

Seconda: rottamare gli attuali dirigenti per lasciar spazio a chi sta fuori dagli incarichi di partito. Si tratta di una riedizione della barbarica logica renziana, che è tra l’altro suicida per ogni partito che la subisce: genera guerra civile e distrugge il partito come unità di intenti o non lo ricostruisce.

E poi perché chi viene da fuori con l’ambizione di  governare il partito dovrebbe essere più valido o etico o rappresentativo? 

Terza: auto-candidature e corsa alla segreteria già partita nella notte del 25 settembre. E’ il segno – questo sì – della condizione pietosa in cui si trova questo partito, usato come un taxi da chi ha molta ambizione e mediocre carisma o rappresentatività e che vuole approfittare del sconfitta elettorale per farsi largo. Questa soluzione è forse quella che potrebbe meglio riuscire a questo partito (magari legittimata dalla ritualità di un congresso), ma sarebbe la sua condanna a restare un partito indigesto e alla fine perdente.

Quarta: un processo costituente che tenga insieme due obiettivi radicali e necessari: cambiare lo statuto e fare chiarezza su idee e programma e identità.

Cambiare lo statuto 

Lo statuto attuale è stato pensato sul modello di un’azienda e identifica il segretario del partito con l’amministratore delegato e la segreteria con il consiglio di amministrazione che il segretario sceglie dosando le quote e i capi fazione.

Serve uno statuto che ridisegni gli organismi interni, che riporti collegialità (l’uomo solo al comando lega il partito alle elezioni e genera permanente instabilità), che avvicini i cittadini e voglia riconquistare iscritti.

Circa le idee e i programmi, essi servono non a fare proclami ma a dire a quale parte della società si vuole prima di tutto parlare, con quale cercare alleanze e con quale no.

Per un partito radicalmente progressista, società democratica vuol dire: servizi sociali primari pubblici e universali (educazione e sanità); politiche di emancipazione dalla povertà e dal lavoro mal pagato (ovvero sì il reddito di cittadinanza, ma come segno di un problema da superare); progetti di riconversione ecologica che guardino al Paese intero e che guardino lontano. 

Politiche che considerino il Paese come unitario, e quindi trattino tutti i cittadini e le cittadine come parte della stessa unica democrazia, non abitanti in regioni con diversi pesi e privilegi. 

Politiche di rispetto delle minoranze e di inclusione, non di tolleranza in negativo dei diversi e non infine di assistenza ai poveri – i poveri non dovrebbero esserci, e politiche di sinistra serie devono porsi questo obiettivo. Tollerare la povertà è immorale oltre che antidemocratico.

Ciò significa, appunto, non poter state con tutti: far pagare le tasse a chi non le paga e farle pagare in ragione progressiva.

Questa sarebbe una progettualità politica democratico-sociale o socialista democratica. Non è ecumenica. Ma il partito – ogni partito—è tale perché di parte, non ecumenico.

Solo così contribuisce al bene generale. Insomma: ricostituzionalizzare il partito per ristabilire unità nell’identità ideale e politica, e per ricreare le condizioni di patriottismo nel partito.

  

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