I 181 arresti per la storia incredibile dei cellulari criptati in cella e dei detenuti in videoconferenza hanno un drammatico rovescio della medaglia: la constatazione dell’esistenza di persone in grado di comunicare con l’esterno e gestire il loro business come manager in smart working. La soluzione? La più banale
Se quella di Marinella – come cantava De Andrè – era «una storia vera», purtroppo lo è anche quella incredibile dei cellulari criptati in carcere e dei detenuti in videoconferenza.
I complimenti ai Carabinieri sono un pochino difficili da estendere all’Amministrazione penitenziaria. I 181 arresti a Palermo hanno un drammatico rovescio della medaglia: la constatazione dell’esistenza di cyber-galeotti in grado di comunicare con l’esterno e gestire il loro business come manager in smart working.
È difficile da credere, ma in un Paese dove la gente perbene deve faticare per cercare “campo” e poter contare su una connessione stabile anche nei centri abitati, nelle strutture carcerarie «il segnale è a palla» e garantisce una connettività insuperabile.
Si ha l’impressione che la copertura della rete telefonica mobile privilegi chi – isolato dagli affetti e dagli affari – vuole a tutti i costi superare le barriere che lo separano dal resto del mondo. Non si capisce se la cosa la si debba ad una speciale convenzione tra il cosiddetto Dap di via Arenula e i gestori telefonici, ma senza dubbio le performance riservate ad una certa utenza hanno scatenato invidia e rabbia dei normali abbonati.
In realtà non sembrerebbe una questione di deprecabile disparità commerciale nei confronti degli utilizzatori ordinari. Per intenderci non è roba da mettere in mano alle associazioni dei consumatori per le migliori condizioni di servizio riservate ai reclusi e non estese alla totalità della clientela.
Riconoscendo l’approccio goliardico come impraticabile per lo scarso sense of humor di chi dovrebbe scongiurare il verificarsi di certi orripilanti vicende, forse vale la pena suggerire qualche domanda che – si volesse arginare lo sfacelo – sarebbe ineludibile per chi ha ruoli di responsabilità in questo scenario.
Chiunque si chiede come sia possibile che determinati dispositivi elettronici dalle tanto sofisticate caratteristiche possano essere serenamente recapitati a soggetti che – per natura della struttura residenziale che li ospita – non dovrebbero avere possibilità di libera relazione con il mondo esterno.
Se nei comics non mancano le vignette di sedicenti vecchine o seducenti fanciulle che portano a parenti in prigione appetitosi plumcake contenenti la lima per segare le sbarre, qui si immaginano teglie di melanzane alla parmigiana la cui farcitura – in luogo della mozzarella e della salsa di pomodoro – è preparata con smartphone, tablet, caricabatterie, webcam e powerbank.
Probabilmente la privacy dell’alimentazione è inviolabile, ma mai nessuno si è azzardato a verificare che le prelibate pietanze non fossero “indigeste”?
La reception e il “personale al piano” in realtà devono fare i conti con il “tenere famiglia” e con la difficoltà a superare indenni i tanti condizionamenti e pressioni ben sapendo che «il cliente ha sempre ragione». Un lavoro difficile quello di occuparsi di “certa gente”, mal pagato e irto di riverberazioni che coinvolgono parenti e amici. Ovviare al rischio di ritorsioni nei confronti di chi è vicino all’agente di custodia non è affatto impossibile. Basterebbe reclutare nella polizia penitenziaria – previo opportuno addestramento – gli immigrati clandestini in sosta nelle strutture di prima accoglienza. È gente che non ha avuto timore di sfidare il mare e prima ancora l’Almasri di turno, hanno resistenza fisica superiore a quella del migliore “abile arruolato”, non temono che i loro famigliari possano essere vittima di alcunché perché nemmeno loro sanno dove stanno.
La banalità della soluzione non deve far sorridere, perché materializza il “due piccioni con una fava”.
Se – come accade – gli smartphone continuano ad arrivare, allora bisogna far in modo che venga meno la connessione e lo si può fare con un piccolo ed inevitabile investimento.
Dopo aver preteso dalle società telefoniche di creare un “cono d’ombra” nella copertura di precise zone, si tratta di isolare elettromagneticamente l’edificio, le aree esterne pertinenti e quelle perimetrali. In termini pratici occorre – si perdoni il romanesco gioco di parole – “ingabbiare” il penitenziario con una schermatura metallica o con il ricorso a speciali pannelli (anche trasparenti per le finestre) o vernici ad hoc. Per aver certezza che nessuno riesca a bypassare il “recinto” si possono adoperare sia un jammer per disturbare sia strumenti per rilevare attività telefonica in corso e localizzare i dispositivi.
Chi in carcere lavora potrà servirsi del telefono fisso e quindi non esistono controindicazioni. Non mancano ipotesi tecnologiche più ardite, ma sembrerebbe voler rubare il mestiere alla nostra Agenzia Cyber e non vorrei mai.
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