Essendomi formato nell’associazionismo cattolico nella stagione di Paolo VI e del Concilio, non nascondo di avere letto e vissuto con disagio il tempo ecclesiale e politico dominato dalla figura del cardinale Camillo Ruini. Circa un ventennio, del quale egli ha reso testimonianza in un’ampia, argomentata intervista al Corriere della Sera. Tale distanza/differenza non mi impedisce, anzi, paradossalmente, mi conduce a riconoscere la soggettiva, buona intenzione che lo ha guidato.

Semplifico a dismisura: la convinzione, la sua, che fosse possibile e doveroso fare più cristiani gli uomini e la società agendo per via politica. Facendo leva sui cosiddetti «principi non negoziabili». Più esattamente grazie a un protagonismo diretto e a una attiva influenza politica della chiesa e, segnatamente, della sua gerarchia. Ma è proprio su questa convinzione e su questa scommessa che si può e si deve eccepire.

Del resto, alla prova dei fatti, non mi pare che quel ventennio – coinciso con il tempo del berlusconismo – abbia fatto segnare una inversione di rotta nel processo di scristianizzazione e di degrado del costume etico-civile del paese. Semmai il contrario. Ben altri e ben altrimenti complessi sono i meccanismi che regolano il rapporto tra politica ed ethos popolare, tra le leggi e il costume. Solo tre rilievi.

Il primo. Si può e si deve discutere se sia cosa buona e, ancor più in radice, teologicamente, concepire e praticare la chiesa come un attore politico in senso stretto. A essa più propriamente spetterebbe un compito di formazione di coscienze e comunità nelle quali competerebbe piuttosto ai laici cristiani “adulti” la responsabilità dell’azione politica. L’interventismo delle gerarchie – e in particolare del “capo” dei vescovi, a loro volta poco coinvolti – ne ha indubbiamente mortificato se non delegittimato l’autonomo protagonismo. Per un tempo lungo, che sconta ancora oggi l’associazionismo cattolico, politico e no.

Di più: è da chiedersi se lo schiacciamento dell’immagine della chiesa assimilata a un soggetto politico, come parte tra le parti politiche, non ne svilisca il carattere universalistico della missione e dunque l’evangelizzazione, che sarebbe semmai il suo compito peculiare e qualificante. Non è un mistero che, al riguardo, il punto di vista del cardinal Martini fosse piuttosto questo.

Secondo rilievo. Con riferimento a precisi episodi e a suoi personali interventi, Ruini sostiene reiteratamente che, a suo avviso, Berlusconi non abbia rappresentato un problema per la democrazia e per la Repubblica. Tesi già di per sé audace e controversa. Chi ha vissuto quel tempo – politico, culturale, sociale – potrebbe argomentare abbondantemente l’esatto contrario. Possiamo d’un canto rimuovere la tesi berlusconiana della “Costituzione sovietica”, il bonapartismo che comprime le autonomie sociali, il ripudio delle regole, le leggi ad personam e ad aziendam, il conflitto di interessi, la metafora del fisco come lo Stato che mette le mani nelle nostre tasche, la guerra alla magistratura, il discredito internazionale?

Ma c’è di più. Ammesso e non concesso che il Cavaliere non sia stato un problema per la democrazia, è tuttavia innegabile che il berlusconismo inteso come partito-azienda-gruppo editoriale abbia forgiato la mentalità e il vissuto (nel senso della egemonia delle masse, non delle élite) in una direzione certo non propizia alla preservazione e tantomeno alla ripresa di un ethos cristiano e di una società informata a legami di natura solidarista.

Una visione della vita informata al successo, al denaro, al consumo, al mito del giovanilismo, per tacere della concezione della donna. Sorprende che tale punto di vista, cruciale per la chiesa, sia trascurato nella lettura politicista che, come allora, ancora oggi ne dà il cardinale Ruini.

Terzo e ultimo rilievo. Dalla stessa ricostruzione dell’ex presidente Cei si ricava che la suddetta preoccupazione non sfuggì invece a politici di formazione cattolica che, scontando l’incomprensione dei vertici della loro chiesa, operarono una «resistenza attiva» contro lo spirito del tempo assecondato dalla stessa gerarchia. Ruini li menziona criticamente: Scalfaro, Andreatta, Prodi, Martinazzoli, Bindi.

Cattolici adulti che, assumendosi in proprio responsabilità, non cedettero alle pressioni dall’alto e si negarono a un collaborazionismo giudicato corrivo.

Se un paragone storico è lecito – per quanto tali paragoni siano sempre relativi – quei politici si possono iscrivere nel solco del De Gasperi che, al prezzo di personale mortificazione, resistette a Pio XII che, nel 1952, in occasione dell’operazione Sturzo su Roma, premeva per la saldatura tra Dc e destra reazionaria monarchica e missina.

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