Prendiamone ormai atto: la bussola della nostra democrazia costituzionale si è smagnetizzata. Bisognerebbe cercare di porvi rimedio, perché questo scomposto navigare a vista potrebbe  prima o poi portarci contro uno scoglio autoritario.  

Uno dei settori di maggiore fibrillazione del sistema è rappresentato dal rapporto tra potere esecutivo e magistratura, con polemiche che ormai hanno investito anche il vertice dell’ordinamento giudiziario: la Corte di Cassazione. A parte aggressive e sguaiate contumelie che per carità di patria conviene non riferire, il principale addebito che autorevoli esponenti del governo muovono ripetutamente ad alcune decisioni è quello di non assecondarne l’azione e di non perseguire in tal modo l’interesse dei  cittadini.

Rilievi critici che rendono utile provare a ricordare cosa voglia dire amministrare la giustizia in nome del popolo (art.101 Cost.) in un Stato di diritto come il nostro.

Il problema che da sempre accompagna ogni società – quello di dover giudicare i comportamenti incompatibili con la sua ordinata convivenza, pur con la consapevolezza che l’umano giudizio non conosce con certezza la verità - viene risolto imponendo a chi è chiamato a decidere il dovere di attenersi ad un itinerario cognitivo che il popolo, attraverso i suoi rappresentanti, ha ritenuto il meno imperfetto per approssimarsi alla verità e che in esso, pur nella sua inevitabile fallibilità, si riconosce.

Un popolo che non crede nella giustizia amministrata in suo nome si consegna alla giustizia del più forte. Questo itinerario cognitivo, chiamato processo, può essere figurativamente visto come una sorta di ponte tibetano che conduce dalla cosa da giudicare alla res iudicata, che pro veritate habetur: la collettività è disposta, cioè, ad accettarla come verità, se è stato seguito il  percorso conoscitivo tracciato dal suo legislatore. Tanto è vero che  il processo, a prescindere dal suo esito, va rinnovato se non ha rispettato le garanzie qualificanti del metodo predisposto. 

Infatti, diversamente da quanto accade per altre pubbliche funzioni (per esempio la politica economica, estera o ambientale) il prodotto della giustizia non si giudica dai risultati, ma dal metodo seguìto.

A differenza di tutte le altre potestà pubbliche, che obbediscono ad un programma di scopo e sono responsabili del risultato raggiunto, quella giurisdizionale, per dirla con Luhmann, risponde ad un programma condizionale: se accerta che si è verificato un determinato fatto, il giudice deve applicare la conseguenza prestabilita. In tal modo si sottrae alla critica politica, essendosi doverosamente limitato ad applicare la norma che il legislatore ha predisposto.

 In altri termini, il giudice non può e non deve farsi carico delle conseguenze della sua decisione, ma solo del rispetto delle regole del procedere e del valutare. Criticare una decisione giurisdizionale perché «non ha aiutato il Governo, che opera nell’interesse del Paese» costituisce un anacoluto costituzionale: il giudice che si facesse guidare dall’idea di ostacolare o di favorire l’azione della politica sarebbe severamente censurabile, determinerebbe uno sbinariamento della sua funzione.

Se alla lettura del solo dispositivo giudichiamo a caldo una sentenza «vergognosa», «sconcertante», «eversiva», o siamo in malafede o siamo giuridicamente analfabeti. A meno di non ritenerci moderni Irnerio, in grado di rapidamente comprendere e giudicare l’intero iter procedimentale e la struttura motivazionale delle decisioni. Ma di queste lucernae iuris non  sembra francamente affollato il panorama.

Quando, da rappresentanti di un potere dello Stato, si critica sistematicamente ogni decisione sgradita, a volte attribuita a pubblici ministeri, altre ai gip che da questi dissentono, altre al giudice di primo grado, altre alla corte di appello, altre alla Cassazione, si è perso il senso delle istituzioni. Quando si grida al complotto giudiziario, anche quello del ridicolo. 

Ciò non vuol certo significare, ovviamente, che il giudice non possa sbagliare o che il ponte tibetano predisposto dalla Costituzione e dalla legge non sia fatalmente fragile e in più punti sconnesso. Proviamo sempre a migliorarlo, ma teniamocelo caro e difendiamolo, perché passa comunque molto al di sopra di quella intollerabile realtà di soprusi, di repressione del dissenso, di emarginazione delle minoranze, di imposizione di dommi politici o religiosi, che troppo spesso in tutte le epoche della storia e a tutte le latitudini della geografia, prende abusivamente il nome di giustizia.

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