- Nell’ultimo anno la fotografia del mercato del lavoro italiano ha visto una inversione di rotta della quale nessuno sta parlando.
- Tra il febbraio 2022 e il febbraio 2023 infatti, secondo Istat, gli occupati permanenti sono cresciuti dall'82,6 all'83,8 per cento del totale dei lavoratori dipendenti, raggiungendo la cifra più alta da quanto esistono le serie storiche.
- Nello stesso arco di tempo la quota di occupati temporanei sul totale dei dipendenti è scesa dal 17,4 al 16,2 per cento, 143mila unità in meno.
Nell’ultimo anno la fotografia del mercato del lavoro italiano ha visto una inversione di rotta della quale nessuno sta parlando. Tra il febbraio 2022 e il febbraio 2023 infatti, secondo Istat, gli occupati permanenti (quelli a tempo indeterminato) sono cresciuti dall'82,6 all'83,8 per cento del totale dei lavoratori dipendenti, con una crescita in termini assoluti di ben 515 mila unità raggiungendo la cifra più alta da quanto esistono le serie storiche.
Nello stesso arco di tempo la quota di occupati temporanei sul totale dei dipendenti è scesa dal 17,4 al 16,2 per cento, 143mila unità in meno. Sia chiaro, la percentuale di occupati temporanei resta elevata rispetto ad altri paesi europei (siamo al quinto posto in classifica) e il numero degli occupati temporanei resta tra i più alti di sempre, ma dopo una crescita molto marcata nella fase immediatamente post-pandemica il rallentamento è evidente.
Le cause andranno chiarite nel tempo, quando ci saranno maggiori dati di dettaglio a disposizione ma già da oggi è possibile avanzare qualche ipotesi. Il primo elemento è la forte crescita nel 2022 (+44 per cento) delle trasformazioni di contratti di lavoro da temporanei a tempo indeterminato, pur in assenza di forti incentivi specifici generalizzati, come accadde ad esempio con il Jobs Act e la decontribuzione.
Due esigenze
Questa dinamica potrebbe essere spinta da due esigenze. Da un lato la scarsità di profili ricercati dalle imprese, sempre più denunciata come un problema del nostro mercato del lavoro, le porta a stabilizzare i lavoratori per confermarli nell’organico e non perdere competenze già formati che porterebbero a nuove ricerche sul mercato con possibili esiti negativi.
Allo stesso tempo non si può escludere che una assunzione a tempo indeterminato venga offerta come elemento incentivante le assunzioni, sempre di profili ritenuti essenziali, al posto di una a tempo determinato. Questo potrebbe spiegare il calo netto degli occupati temporanei pur in un periodo di espansione economica. L’incidenza poi molto elevata degli over 50 tra i nuovi occupati, anche a causa del trend demografico, può spiegare ulteriormente la crescita dell’occupazione permanente.
In ultimo la consapevolezza della tendenza maggiore alle dimissioni e quindi di una maggior dinamicità del mercato del lavoro potrebbe portare le imprese ad avere meno remore, in termini di preoccupazione sui costi di separazione, ad assumere a tempo indeterminato.
I nuovi contratti
L’insieme di questi dati si inserisce comunque all’interno di un quadro nel quale il 60 per cento dei nuovi contratti resta un contratto a termine, complice anche la durata media di questi è che in diminuzione con una crescita nel 2022 dei contratti a termine di durata inferiore ai 30 giorni. E con una forte concentrazione di contratti a termine (oltre che di tirocini) nella fascia più giovane della popolazione.
Il rischio in questo scenario è quello di una ulteriore polarizzazione tra profili qualificati e ricercati dalle imprese, per i quali è perfino possibile che non si ripropongano più gli step di inserimento (tirocinio-contratti a termine/apprendistato-contratti a tempo indeterminato) fino a qualche trimestre fa assolutamente normali a fronte di una assunzione stabile immediata, e profili poco appetibili che restano incagliati in una spirale di contratti brevi, anche brevissimi, senza tutele e prospettive.
Per pensare a nuovi interventi sul lavoro, senza limitarci a mutuare esperienze estere che si sono realizzate in contesti differenti (pensiamo al fatto che in Spagna i lavoratori temporanei erano a inizio 2022 il 25 per cento), occorrerebbe partire da questi dati che suggeriscono, ad esempio, di concentrarsi da un lato sui contratti brevi, che non sono la totalità dei rapporti temporanei, e, dall’altro, sulla fascia giovanile con profili medio-bassi intervenendo sui tirocini per colpire l’equazione tra lavoro a basso valore aggiunto e lavoro povero e non tutelato.
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