C’è una regola tutta iraniana da spiegare: la presa in ostaggio, attraverso arresti per ragioni non rese note o in seguito motivati da imputazioni-farsa quali lo spionaggio per potenze nemiche, di cittadini occidentali che diventano ostaggi, pedine di scambio per ottenere qualcosa
Fino alla mattina del 27 dicembre, secondo Reporter senza frontiere, i giornalisti e le giornaliste in carcere in Iran erano almeno 41. Ora sappiamo che quel numero è salito ad almeno 42 con l’arresto, avvenuto il 19 dicembre e appreso in differita oltre una settimana dopo, di Cecilia Sala.
L’allergia all’informazione
Nelle prigioni iraniane sono passate, per citare due nomi, Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi, le due giornaliste che avevano indagato e fatto poi luce sull’orribile storia di Mahsa Amini, entrata in coma e poi morta dopo essere stata fermata nel settembre 2022 dalla “polizia morale” di Teheran perché portava male il velo.
Anche Cecilia Sala, nei suoi podcast per Chora Media, dava voce alle donne e alle loro storie, quelle donne che subiscono da decenni ciò che le attiviste per i diritti umani chiamano apartheid di genere.
Se c’è una regola che il giornalismo libero infrange è quella suprema dei regimi autoritari: non far sapere. Ogni tentativo di raccontare al mondo cosa accade all’interno dei loro paesi è considerato una “minaccia alla sicurezza nazionale”.
Basta leggere gli indici della repressione stilati dalle organizzazioni per la libertà di stampa: nel contesto di un aumento complessivo, registrato nel 2024, del numero degli operatori dell’informazione in carcere, ai primi posti ci sono Cina, Myanmar, Bielorussia, Russia, Egitto, Turchia. E, per l’appunto, l’Iran.
C’è un’altra regola, però, questa tutta iraniana, da spiegare: la presa in ostaggio, attraverso arresti per ragioni non rese note o in seguito motivati da imputazioni-farsa quali lo spionaggio per potenze nemiche o la collusione contro la sicurezza nazionale, di cittadini occidentali o con doppia cittadinanza che diventano ostaggi, pedine di scambio per ottenere qualcosa.
La prassi degli ostaggi in Iran
Ci sono voluti sei anni, dall’aprile 2016 al marzo 2022, per riportare a casa la cittadina iraniano-britannica Nazanin Zaghari-Ratcliffe fino a quando il governo di Londra non ha accettato di risarcire il governo di Teheran di una consistente somma, quasi 400 milioni di sterline, anticipata quasi mezzo secolo prima dallo scià per l’acquisto di armi britanniche, mai più giunte a destinazione perché nel frattempo in Iran c’era stata la rivoluzione islamica.
Due giorni prima del ritorno a casa, funzionari iraniani avevano convocato Zaghari-Ratcliffe dicendole esplicitamente che stava per essere «scambiata con denaro».
Solo un anno di meno, nello stesso scambio, c’è voluto per la scarcerazione di un altro cittadino iraniano con passaporto del Regno Unito, Anoosheh Ashoori, arrestato nel 2017.
Il 26 maggio 2023 Iran e Belgio hanno organizzato uno scambio di prigionieri: l’Iran ha liberato l’operatore umanitario Olivier Vandecasteele, arrestato nel febbraio 2022 e condannato a 40 anni per spionaggio, in cambio del diplomatico Assadollah Assadi, condannato per terrorismo a 20 anni di carcere.
il 15 giugno di quest’anno ha fatto trionfale rientro a Teheran Hamid Nouri, condannato all’ergastolo in Svezia nel dicembre 2023 per il ruolo avuto nel massacro delle carceri iraniane del 1988, in cui furono sommariamente uccisi migliaia di detenuti politici.
In cambio, sono rientrati in Svezia il funzionario dell’Unione europea Johan Floderus, che rischiava l’ergastolo o la pena di morte per spionaggio, e Saeed Azizi, condannato a cinque anni per collusione contro la sicurezza nazionale e gravemente malato.
Dalla trattativa è stato escluso Ahmadreza Djalali, esperto in Medicina di emergenza con cittadinanza svedese e iraniana, per anni ricercatore presso l’Università del Piemonte orientale di Novara, arrestato nel 2016 e condannato a morte l’anno dopo per spionaggio in favore di Israele. La sua è una storia poco nota in Italia, nonostante Djalali ci abbia trascorso molto tempo.
Che c’entra tutto questo con Cecilia Sala? Speriamo nulla. Ma dobbiamo unire i puntini di tre date: il 16, il 17 e il 19 dicembre.
Il 16, in transito all’aeroporto italiano di Malpensa, viene fermato Mohamed Abedini, collaboratore dei Guardiani della rivoluzione. Su di lui c’è una richiesta di estradizione da parte degli Usa per aver dato supporto materiale a un attacco iraniano con un drone che, a gennaio, causò la morte di tre militari statunitensi in Giordania.
Il 17, con un dettagliato post su X, il giornalista della diaspora iraniana Shahed Alavi lancia l’allarme sollecitando gli italiani e le persone con doppio passaporto a non viaggiare in Iran onde evitare ritorsioni a seguito dell’arresto di Abedini. Questo messaggio può essere letto anche come un allarme a chi in Iran già si trova.
Il 19, Cecilia Sala viene arrestata.
Una giornalista italiana, libera e indipendente, è stata arrestata per essere presa in ostaggio? Resta al momento una domanda. Affermazioni prive di punto interrogativo, che è bene ribadire in conclusione, sono invece queste: il giornalismo non è un reato. Chi fa giornalismo non può essere trattato come una pedina di scambio.
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