- Sembra esserci meno preoccupazione verso le fake news rispetto al picco della pandemia e al periodo trumpiano
- La guerra e il cambiamento climatico ripropongono opposizioni partigiane globali, in cui fake news apparentemente trasversali hanno meno impatto
- È il momento per valutare il fenomeno in maniera più sobria, anche con un’analisi filosofica (come fatto da un recente libro di Tommaso Piazza e Michel Croce, Che cosa sono le fake news, Carocci, 2022)
Protagoniste indiscusse della politica degli ultimi anni, le fake news sembrano essere passate in un cono d’ombra. Meno articoli pensosi sulla loro efficacia, le fake news non sembrano più il fattore impazzito della politica mondiale. Eppure, non sono certo scomparse. Innanzitutto, perché non erano nate pochi anni fa con l’avvento dei social, in cui piuttosto sono state soltanto amplificate e manipolate. Ma anche perché i produttori e propagatori di fake news vivono e lottano insieme a noi. Anche se alcuni fenomeni populisti stanno avendo un periodo di risacca (ad esempio, Trump e Salvini), altri sono vivi e vegeti.
D’altra parte, al giorno d’oggi c’è una maggiore attenzione non solo al fenomeno in sé, ma soprattutto alla sua pervasività, e si moltiplicano i programmi di presa di controffensiva nel dibattito pubblico. Inoltre, la grande emergenza degli ultimi tre anni (la pandemia Covid) è in parte sotto controllo e l’effetto dirompente delle fake news sanitarie sembra essere in discesa.
Le attuali emergenze politiche globali (la guerra Russia-Ucraina e il cambiamento climatico) non sono tanto caratterizzate da specifiche fake news, quanto da ben più tradizionali, anche se non meno insidiose, contrapposizioni ideologiche. Ad esempio, la manipolazione ideologica dei negatori del cambiamento climatico avviene a livello più generale, cioè nel modo di guardare al problema, più che tramite fake news specifiche capaci di imporsi nella loro presunzione di validità generale (come, ad esempio, la balla sull’idrossiclorochina quale trattamento anti-Covid, propagata, tra gli altri, da Trump e Salvini).
Infine, vi è una parziale riconfigurazione dei canali di trasmissione comunicativa. Rispetto a qualche anno fa, Facebook inizia a perdere parte del suo potere di piattaforma universale. Twitter, a sua volta, è in crisi a causa della gestione erratica di Musk: pur avendo riammesso molti account sospesi, proprio per i sospetti sull’aver incitato alla violenza o aver diffuso fake news, il potere di imporre l’agenda comunicativa e giornalistica globale sembra in declino. Il social media emergente, TikTok, sposta la questione perché frammenta ulteriormente il pubblico, nella personalizzazione della fruizione di video.
Ma questa impressione di minore urgenza politica e comunicativa non deve far pensare che la questione sia socialmente risolta. Ed è in questo contesto, più maturo e meno emergenziale, che possiamo apprezzare le migliori analisi accademiche del fenomeno. Una novità, in tal senso, è costituita dal recente volume di Tommaso Piazza e Michel Croce (Che cosa sono le fake news, Carocci, 2022). A differenza di altri volumi, da parte di esperti di comunicazione, politica o sociologia, gli autori offrono un’analisi epistemologica delle fake news. L’epistemologia è quella branca della filosofia che si occupa della conoscenza, ovvero dei criteri per distinguere tra conoscenza genuina e altre forme di sapere apparente.
In senso epistemologico le fake news sono affermazioni intenzionali volte a ingannare un interlocutore, e in quanto tali vanno distinte da altre forme di disordine informativo. L’elemento più originale dell’analisi di Piazza e Croce sta nel tentativo di spostare l’analisi delle fake news da una prospettiva puramente epistemica (errori di individui pigri e pieni di pregiudizi) a una prospettiva sociale. Le fake news, infatti, sono per lo più propagate da persone in buona parte indifferenti rispetto alla loro verità, ma molto interessate a usarle per esprimere i propri valori (politici e culturali).
In tal senso, le strategie di correzione, debunking ed educazione individuale sono destinate a fallire perché il pubblico delle fake news non è primariamente interessato a scoprirne la falsità. L’efficacia delle fake news si esprime nel bisogno di identificarsi in un gruppo, per affermarne i valori e l’identità. Anche se Piazza e Croce fanno ampio uso di una letteratura e di esempi americani (su tutti l’isterica partigianeria dei sostenitori di Trump), il fenomeno è ben noto anche in Italia. E sostanzialmente trasversale. Ben attaccato alle proprie camere d’eco, in quanto gruppi di condivisione e riconoscimento sociale, ciascuno di noi riterrebbe impossibile distaccarsi dal proprio gruppo per riconsiderare notizie proveniente da fonti esterne, ritenute inaffidabili.
Le soluzioni più efficaci, quindi, paiono quelle che cercano di mettere in guardia il pubblico dalla manipolazione o veicolano idee alternative, senza pretendere di sbattere in faccia la verità. Infatti, viene suggerito, le fake news sono più l’effetto che la causa del problema. Dove il problema è la polarizzazione. Ma questo, seguendo una prospettiva molto americana, sembra presupporre che vi sia stato un tempo in cui non vi era polarizzazione e il pubblico condivideva fatti e prospettive interpretative. Basti però pensare agli scontri ideologici del passato italiano ed europeo per fugare questa idea. Le fake news sono sempre esistite. Negli ultimi anni abbiamo solo enormemente democratizzato la capacità di produrle e diffonderle via social. E noi come pubblico indistinto non abbiamo ancora le capacità individuali e i canali comunicativi per digerirle come abbiamo (in parte) imparato a digerire altre forme di manipolazione collettiva (ad esempio, la pubblicità).
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