A proposito della giudice Apostolico di Catania, s’è fatta una scoperta che scandalizza le anime belle: i/le giudici hanno idee, e tentano di farle valere. Idee tutte loro, che rischiano d’inquinare la terzietà del giudizio, specie quando chi giudica ne dà esecrabile sfogo in pubbliche manifestazioni. Questa scoperta a me sembra un’ingenuità studiata
S’è fatta una scoperta che scandalizza le anime belle: i/le giudici hanno idee, e tentano di farle valere. Idee tutte loro, che rischiano d’inquinare la terzietà del giudizio, specie quando chi giudica ne dà esecrabile sfogo in pubbliche manifestazioni. Questa scoperta a me sembra un’ingenuità studiata. Certo – si dirà a proposito della giudice Apostolico – la questione non è tanto nutrire idee, quanto renderle pubbliche in forme troppo vistose (e a portata di videocamera).
Ma al di là della deontologia professionale, di cui qui non tratto, c’è una questione, se si vuole, assai più prosaica, che formulo a mo’ di domanda: il grado con cui unə giudice dissemina di convincimenti personali la propria attività di giudice dipende forse dalla vistosità dei comportamenti che li manifestano? Mi sento di dubitarne, perché immagino esistano in gran numero magistratə che orientano le proprie decisioni sulla base di una specifica comprensione del mondo, benché nessunə ne sia a conoscenza, persino tra le mura domestiche. È ora di farsi un’idea meno incantata di cos’è e come funziona il diritto, magari per sfruttarne appieno le potenzialità e limitarne altresì i rischi d’esorbitanza.
Quanto da decenni vien fuori nei reiterati, spesso pretestuosi, battibecchi tra la classe politica e la magistratura non è tanto l’accanita tendenza del potere giudiziario a intronarsi censore dei costumi e precettore sociale – tendenza che esiste, vivace e vivida, da che l’essere umano ha inventato il diritto alcuni millenni fa. C’è assai di più: cigola e cricchia quell’impalcatura un po’ vetusta che a lungo ha presentato il potere giudiziario come la bouche de la loi, cioè come il fedele applicatore della volontà del potere legislativo, capace di recepire ed eseguire l’indirizzo del legislatore come fosse l’automa meccanico delle principesche Wunderkammer.
Si trascura in tal modo un dato di sconcertante evidenza: le più importanti riforme nel campo dei diritti civili, specie (ma non solo) quelli relativi alle minoranze sessuali, hanno riportato i primi successi nelle aule di tribunale. Le Corti si sono dimostrate meno pavide e più ricettive nei riguardi di pretese di cittadinə che riportavano discriminazioni e lamentavano inefficienze. I tribunali hanno servito sia da cassa di risonanza sia da promotori di conflitti tra parti contrastanti della legge, così da muovere il legislatore all’intervento, per quanto pigro e perlopiù manchevole.
A mio avviso, quel che più rileva dell’attività di chi giudica non è la neutralità (se per questa s’intende la chimerica assenza di preferenze politiche e orientamenti etici), bensì l’imparzialità e l’indipendenza. Chi giudica deve servirsi del testo di legge come filtro e guida nella comprensione di quanto accade per dare piena applicazione alle tutele previste dal diritto. Chi giudica, com’è ovvio, non può far uso del diritto per assicurare privilegi a una parte anziché a un’altra. Ma soprattutto, chi giudica dev’essere indipendente, vale a dire, non deve orientare la condotta e fare valutazioni sotto la costrizione, circostanziale o strutturale, del potere politico.
L’attività delle Corti, oggi più che in passato, opera di fatto da motore ausiliario entro un più ampio e informale processo legislativo. Prima ci si avvede di questa metamorfosi in fieri, meglio la si potrà disciplinare per una più efficace ripartizione delle competenze tra i poteri. Se ne dispiaceranno i followers di certi profili social – almeno fintantoché non servirà loro ricorrere in giudizio per le palesi iniquità che certe leggi, per colpa o dolo, producono nelle loro vite.
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