- Liberandosi dalle controversie che risalgono agli anni Settanta tra keynesiani e monetaristi, occorre considerare l’inflazione come un fenomeno strutturale, che necessariamente accompagna le trasformazioni dell’economia.
- Questo approccio microeconomico consente di evidenziare la pericolosità di politiche macroeconomiche restrittive che causerebbero una recessione senza necessariamente ridurre l’inflazione, anzi rischiando di aggravarla.
- Una politica efficace di contrasto all’inflazione dovrebbe garantire, tramite una molteplicità di strumenti (di politica industriale) un flusso stabile di investimenti pubblici e privati, che consentirebbe di risolvere gli squilibri settoriali.
Il ritorno dell’inflazione dopo un quarantennio di “grande moderazione” ha ravvivato il dibattito tra chi vede l’inflazione come il risultato di eccessiva creazione di moneta e chi invece la attribuisce all’aumento dei costi di produzione. Come già negli anni Settanta, la distinzione non ha molto senso, non consentendo di comprendere la natura del fenomeno e dei mezzi per porvi rimedio.
Che sia da costi o da domanda, l’inflazione rivela squilibri che possono variare da settore a settore; non è strano, anzi è la norma, che coesistano settori caratterizzati da eccessi di domanda e settori in cui l’eccesso di offerta tende a far stagnare i prezzi; insomma, l’inflazione è un fenomeno fondamentalmente microeconomico.
Gli squilibri settoriali possono essere il risultato di shock temporanei, ad esempio geopolitici, ma anche il risultato di tendenze strutturali; si pensi ad esempio al settore del gas: si tratta di una fonte energetica di transizione per cui la domanda rimarrà sostenuta ancora a lungo, mentre gli investimenti sono necessariamente destinati a calare per far spazio a maggior capacità produttiva nelle rinnovabili.
Infine, un fattore estremamente rilevante in questo periodo, gli squilibri settoriali possono emergere in seguito all'accorciamento dell'orizzonte temporale delle imprese, che in condizioni di forte incertezza non sono più incoraggiate a investire a lungo termine, con il rischio di limitare ulteriormente l'offerta e causare un'inflazione ancora più elevata.
Una conseguenza importante di questa visione “microeconomica” è che un'inflazione moderata è non solo fisiologica, ma necessaria per facilitare le variazioni dei prezzi relativi che accompagnano i mutamenti strutturali di un’economia che non è mai veramente in equilibrio.
È questo, tra le altre cose, che spiega per quale motivo nessuna banca centrale si ponga come obiettivo un’inflazione nulla (la Bce e la Fed americana hanno un obiettivo di inflazione media al 2 per cento).
Resistere alla tentazione
Ignorando completamente questo insieme di fattori, molti economisti continuano a riferirsi al quadro concettuale sviluppato da Milton Friedman negli anni Settanta per cui l’inflazione è sempre e comunque un fenomeno monetario.
Un eccesso di moneta in circolazione (che potrebbe essere causato dalla banca centrale o da politiche di bilancio eccessivamente espansioniste da parte dei governi) rischierebbe di generare aspettative al rialzo degli operatori, e innescare una spirale prezzi salari che va a tutti i costi evitata.
È per questo che, sia pur di fronte a shock di natura temporanea (le difficoltà dell’economia mondiale legate allo shock pandemico, esacerbate dalla crisi ucraina) essi si sono affrettati a chiedere che le banche centrali segnalassero con forza l’intenzione di spezzare le reni all’inflazione.
Tuttavia, nella situazione attuale, con alto debito pubblico e privato, forte incertezza e (almeno nella zona euro) una domanda aggregata non particolarmente dinamica, una politica monetaria restrittiva comprimerebbe consumi e investimenti e creerebbe problemi di gestione del debito, sia pubblico che privato, senza aggredire nessuna delle cause dell’inflazione; anzi, essendo le pressioni inflazionistiche contenute al prezzo di penalizzare gli investimenti produttivi (tangibili e intangibili), il processo di riassorbimento degli squilibri settoriali potrebbe addirittura esserne rallentato, trasformando un’inflazione temporanea in permanente.
Il ruolo della politica di bilancio e industriale
Se l’inflazione è strutturale, lo strumento principale per affrontarla è la politica di bilancio e industriale. L’obiettivo dovrebbe essere di accelerare quanto più possibile il riallineamento di domanda e offerta per i singoli settori facilitando allo stesso tempo i cambiamenti strutturali legati alla transizione ecologica e digitale.
La capacità di mantenere un flusso costante di investimenti pubblici e privati diventa in quest’ottica centrale.
Per i primi è necessario che, in attesa di un accordo tra i paesi europei sulla riforma del Patto di Stabilità, la Commissione chiarisca esplicitamente che interpreterà in modo molto flessibile le norme attuali (nella sciagurata ipotesi che vengano riattivate alla fine del 2022).
Per quel che riguarda gli investimenti privati, è fondamentale che le imprese non si trovino a fronteggiare scarsità di finanziamenti; le misure vanno da incentivi mirati per settori e imprese particolarmente rilevanti a interventi sui mercati creditizi per evitare comportamenti predatori da parte delle istituzioni finanziarie, passando per l’intervento di banche pubbliche di investimento (tra cui la Banca europea degli investimenti).
Anche la Bce avrebbe un ruolo da svolgere, prolungando i suoi finanziamenti al settore creditizio condizionati al mantenimento del credito alle piccole e medie imprese.
Ma la cosa probabilmente più importante è che la politica economica riduca quanto più possibile l’incertezza, ostacolo maggiore all’investimento privato e all’allungamento dell’orizzonte decisionale delle imprese.
Il policy mix, l’uso congiunto di politica di bilancio e monetaria, dovrebbe garantire condizioni macroeconomiche quanto più stabili possibile non solo nell’immediato, ma anche impegnandosi a non tornare inerte nel lungo periodo.
L'economia insomma dovrebbe essere tenuta in un corridoio di stabilità, che consenta di riassorbire gli squilibri e di favorire i cambiamenti strutturali.
Un aumento graduale del tasso di interesse sarebbe in linea con l'aumento del tasso di crescita stesso associato ad un aumento dei profitti derivanti da investimenti a lungo termine.
Queste misure volte a creare le condizioni per il riassorbimento degli squilibri settoriali dovrebbero essere accompagnate nel breve termine da misure volte a proteggere i più vulnerabili.
Non si tratta solo di aprire i cordoni della borsa, ma anche di considerare l'uso temporaneo di controlli dei prezzi e imposte straordinarie sui redditi elevati per ridistribuire il costo della crisi.
Insomma, l’inflazione è il sintomo di disequilibri settoriali di un’economia in trasformazione. Evitare un approccio esclusivamente macroeconomico consente di afferrare la complessità di un fenomeno a cui è importante rispondere mobilitando diversi strumenti: one size does not fit all.
Se non si riesce a governare la transizione vi è il rischio reale che l'economia oscilli tra impennate dell’inflazione e recessioni indotte dalle politiche restrittive.
© Riproduzione riservata