- La destra marcia su palazzo Chigi con una consapevolezza che non ha più un avversario in grado di competere. C’è una nuova destra. Ma non c’è una nuova sinistra.
- La legge elettorale nella sua componente maggioritaria, combinata col taglio dei parlamentari, condanna il centrosinistra alla sconfitta.
- Domani è un giornale, non un partito, ma sarà lo spazio dove discutere ed elaborare quelle risposte all’avanzata della destra che i partiti non sono riusciti a dare.
Qualcosa è già cambiato. Il discorso della vittoria di Giorgia Meloni parlava di nazione, e non di Repubblica, o di paese. Celebrava il successo di Fratelli d’Italia come la riscossa di una tradizione sempre minoritaria, quella del post-fascismo che nella generazione di Meloni ha sublimato nell’immaginario fantasy slogan e valori non più spendibili.
Alcune testate internazionali hanno scritto che avremo “Il presidente del Consiglio più a destra dai tempi di Mussolini” (Cnn), l’Atlantic vede “il ritorno del fascismo”. Non siamo passati dalla democrazia all’autocrazia in una notte. Ma per la prima volta abbiamo un vincitore delle elezioni che quantomeno rivendica il diritto di essere non-antifascista: nel suo primo intervento da potenziale premier, Meloni ha omaggiato il suo passato – e sappiamo qual è – e perfino i martiri di quella tradizione.
Perché anche se è ancora giovane e si avvia a essere la prima premier donna, Meloni resta ostaggio del passato e non ha mai sviluppato un linguaggio per parlare di futuro: è la prima leader di destra a promettere la conservazione, invece del cambiamento. E il paradosso è che milioni di elettori non ideologici l’hanno votata, invece, nell’illusione di una svolta radicale e possibile.
Democrazia illiberale
La visione della democrazia come governo della maggioranza che si impone sulle minoranze, invece che tutelarle come proprio di quella democrazia che è anche liberale, salda il mondo di provenienza di Meloni e di Fratelli d’Italia con quello di arrivo, quello dell’Europa spaccata sul rispetto dello stato di diritto.
Si prepara un governo allineato con Nato e Stati Uniti sulla guerra in Ucraina, ma dentro l’Unione europea schierato con Ungheria, Polonia e altri che rivendicano la supremazia del diritto (e del potere) nazionale su quello europeo. Che negano, cioè, la natura stessa dell’Unione.
In questi mesi Meloni ha costruito un bluff al quale hanno scelto di credere media e pezzi di establishment. Il fatto la futura premier parli come Mario Draghi su conti pubblici e crisi energetica non significa che saprà anche governare come lui. La classe dirigente di Fratelli d’Italia si è fatta notare più per le inchieste giudiziarie che per la buona amministrazione.
Ogni insuccesso genererà incentivi a spostare l’attenzione, cosa che Meloni sa fare bene, tra promesse di blocco navale, censura delle “devianze” e altre provocazioni a danno dei più fragili.
La destra marcia su palazzo Chigi con una consapevolezza che non ha più un avversario in grado di competere. C’è una nuova destra. Ma non c’è una nuova sinistra.
Superare il Pd
La legge elettorale nella sua componente maggioritaria, combinata col taglio dei parlamentari, condanna il centrosinistra alla sconfitta.
Non soltanto perché è diviso tra Pd, Cinque stelle, Azione e altri, ma perché con collegi così grandi la forza dei progressisti nei grandi centri urbani viene surclassata dalla propensione delle periferie a votare a destra. A che servono tre partiti che possono solo perdere?
Ormai è ora di riconoscere che l’esperimento del Pd è fallito e va superato: ha debuttato nel 2007 e come primo risultato ha abbattuto il governo Prodi e consegnato il paese a Silvio Berlusconi (grazie, Walter Veltroni), poi non ha mai vinto un’elezione: nel 2013 Enrico Letta è andato al governo con Forza Italia, nel 2014 Matteo Renzi ci è rimasto e nel 2018 ha perso contro i populisti gialli e verdi di Cinque stelle e Lega.
Il Pd non riesce a costruire alleanze larghe come quelle che servono a vincere, i Cinque stelle lo insidiano come forza leader dello schieramento, ma Giuseppe Conte oggi esulta soltanto perché aveva abbassato di molto le aspettative: quando ti danno per estinto, ottenere circa un terzo dei voti che nel 2018 (4,3 milioni contro 10.7) pare un trionfo.
L’aumento dell’astensione del 9 per cento indica che un pezzo crescente del paese non si riconosce in questa offerta politica. Anche Giorgia Meloni non è stata capace di smuovere molto, se si guardano i voti assoluti: il centrodestra ha sempre gli stessi 12 milioni di voti circa, con un travaso tra partiti ma senza allargare il perimetro.
Dopo il voto di rabbia e protesta, ora si sta affermando un non-voto di dissociazione. A quelle persone che si sono chiamate fuori dalla scelta dei propri rappresentanti bisogna dare risposte, non con alchimie di palazzo che cambino solo sigle e alleanze, ma con una nuova offerta politica.
Domani è un giornale, non un partito, ma sarà lo spazio dove discutere ed elaborare quelle risposte all’avanzata della destra che i partiti non sono riusciti a dare. La posta in gioco non è mai stata più alta.
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