Tecnici e politici ballano insieme e si scambiano i ruoli. Vi sono tecnici che in alcune congiunture si sono “politicizzati”, come tipicamente quello della magistratura.
Politici o tecnici? Se ne è fatto un gran parlare. L’equilibrio tra politici e tecnici segna da sempre il tempo della democrazia, oscillante tra gli estremi delle diverse legittimazioni: quella della competenza e quella della scelta popolare.
Per definizione la democrazia è il governo della seconda, della scelta popolare: nel governo del demos, a Atene, sulle grandi questioni (la guerra, la pace..) decideva l’agorà, l’assemblea, come da noi il parlamento.
Invece la maggior parte delle cariche di governo era assegnata mediante estrazione a sorte (tra i disponibili, i richiedenti, i meritevoli).
Vi erano però alcune funzioni - tipicamente quelle militari e finanziarie – che richiedevano competenze tecniche. In quel caso i titolari erano eletti, non sorteggiati.
Come la gran parte dei reggitori (i “capi del governo”), anche Pericle, che governò vent’anni e plasmò il regime, era eletto in quanto generale - dunque come tecnico? -, ma anche perché era ricco e potente, capace di comprare il consenso popolare. Ci risiamo: quanto conta il sapere tecnico, la competenza, rispetto al consenso, cioè al potere politico?
Del resto, per condurre una guerra occorrono bravi strateghi, per dichiararla occorrono i politici. Quello che diceva Georges Clemenceau, che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali, lo possiamo ripetere per tutti gli altri settori in cui si è dilatato e specializzato l’intervento pubblico (lavori pubblici, sanità, istruzione, sport, famiglia…: basta prendere i titoli dei 24 ministeri del governo attuale).
E’ una estesa specializzazione che alimenta l’equivoco di pensare che un ministro di un dato dicastero debba essere competente della materia. Il che non è necessariamente vero, o non lo è affatto.
Tecnica e politica
La competenza “tecnica” di un ministro è comunque politica, consiste nel mediare, nel trattare, è fatta di equilibrio, intuito, all’occorrenza furbizia, e sopra ogni altra cosa del circondarsi di tecnici capaci e di sapere ascoltarli.
Tra questi, essenziali sono gli apparati del ministero. In molti casi, sono questi - i veri decisori “tecnici” - a garantire la continuità del governo.
Nel governo rappresentativo, contraltare dei ministri troppo celato alla vista sono infatti i capi di gabinetto, i funzionari, gli apparati quali sono venuti formandosi nello Stato moderno, col crescere dell’intervento pubblico, estendendosi, oltre guerra e finanze, in tutte le nervature del territorio e della società intera.
Nelle sue varie e differenti configurazioni, che siano francesi, prussiane, britanniche-americane, la costruzione dello Stato amministrativo ha significato la lenta e contrastata introduzione delle competenze, del sistema dei concorsi per merito, dei “ruoli organici”, e così via.
È una storia tormentata, come mostrano le vicende del sistema di patronage in Gran Bretagna, dove almeno fino a metà Ottocento gli uffici erano scelti tra clienti e parenti, pratiche che dovettero poi soccombere alle necessità dell’amministrazione moderna.
Tecnici e politici dunque ballano insieme e si scambiano i ruoli. Vi sono tecnici che in alcune congiunture si sono “politicizzati”, come tipicamente quello della magistratura.
Dopo Mani pulite è andata mutando la legittimazione della magistratura, da neutrale, garantistico-procedurale a politica, socio-democratica.
Quasi si tratta di un ritorno all’antico regime, quando il pervasivo potere dei magistrati indusse la rivoluzione a farne potere neutro, mera “bocca della legge”, secondo la celebre espressione di Montesquieu. Oggi semmai sono bocca della Costituzione, attivi attori politici.
Ministri e professioni
Oggi quando in Italia si parla di tecnici al governo, ci si riferisce dunque non alle diverse competenze, bensì, a contrario, all’afasia della politica.
Lo mostrano i presidenti del Consiglio succedutosi negli ultimi decenni e i loro più stretti collaboratori nel campo finanziario (come ad Atene), molti di formazione non politico-partitica; per i primi si è parlato di “supplenza” di potere, per i secondi, ministri e collaboratori, si è detto che spesso rappresentavano uno “scarico di responsabilità politica”.
È un fatto comunque che da quando, quasi trent’anni fa, sono andate in frantumi le culture politiche originarie, molti sono stati i “papi stranieri”; a cominciare da Berlusconi, l’outsider più devastante, un caso anzi di outsider che si è fatto politico, come poi è avvenuto con successo con Prodi, e senza gran successo con Monti, mentre dalla Banca d’Italia dopo Dini è venuto Ciampi, uomo delle istituzioni che ha raggiunto il vertice “saltando” del tutto la politica. Draghi è stato il culmine di questa serie.
Ora, vuoi che Meloni abbia collezionato rifiuti tra i tecnici, come alcuni dicono, vuoi che sia stata una sua scelta, fatto sta che il suo governo, con la sua piena, conclamata politicità è da questo punto di vista una novità. Ciascuno, scorrendo nomi e biografie, può farsi una sua idea al riguardo.
Tra i ministri, pochi sono reclutati dalle professioni, peraltro professioni pubbliche, o vicine alla politica: Piantedoisi, prefetto, Nordio, magistrato, Sangiuliano, giornalista, Schillaci, medico rettore (il più “tecnico” di tutti), ma vi sono anche manager, come Calderone, Zangrillo, Abodi….
Assai più consistente è l’elenco dei politici professionali di lungo corso, come Lollobrogida, Urso, Musumeci, Ciriani… Altri politici a tutto tondo hanno alle spalle una professione (abbandonata da tempo, come Calderoli), o praticata come contermine, come è tipico del campo del diritto e delle professioni legali (è il caso di Valditara, Bernini, Alberti Casellati…).
È dunque un ritorno alla politica. Con una differenza, rispetto alle stagioni precedenti, nelle quali la politica, ammantata di antipolitica, aveva preteso di costituire una innovazione. In fondo era stato così per Berlusconi, alfiere della “società civile” contro il “teatrino della politica”, per la Lega, in certa misura anche per Renzi, ma sopra tutti per i Cinque Stelle, i vincitori del 2018, che avevano rappresentato l’assolutezza politica tipica dei movimenti antipolitici nuovi, intesi a rompere col passato.
Macchina burocratica
Nel suo Stato e rivoluzione Lenin, uno di questi novatori, spiegava che le funzioni statali si erano a tal punto semplificate e «ridotte a semplici operazioni di registrazione, d'iscrizione e di controllo, da poter essere benissimo compiute da tutti i cittadini con un minimo di istruzione e per un normale 'salario da operai'».
Così abolita la «macchina burocratica» e superato ogni parlamentarismo, «il meccanismo della gestione sociale è già pronto». Una simile idea leninista ha ispirato il Movimento Cinque stelle, la cui foga antipolitica ha illuso di poter proiettare il popolo direttamente al proscenio (o al balcone). Cinque anni di pratica al governo hanno poi levigato i profili di alcuni, affondato la sorte di altri.
Rispetto a tutto ciò, il personale che incarna la riscossa della politica dei Fratelli d’Italia non ha la minima traccia di novità, rappresenta davvero, perfino nelle biografie dei ministri la riscossa di stagioni passate, a tutti gli effetti rappresenta una “reazione”.
Prima di soffermarci sui busti del duce di casa La Russa, è allora utile domandarsi a cosa si reagisca. L’unica espressione univoca di questo movimento reattivo (reazionario?) sono i nomi di Fontana e di Roccella, dichiarata reazione all’espansione dei diritti nel campo della famiglia e delle relazioni di genere. Ma gli altri?
È dubbio che possano rappresentare una reazione alla globalizzazione, all’integrazione europea, all’accoglienza, alle campagne vaccinali, alla solidarietà con l’Ucraina, come qualche demagogo vorrebbe.
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