- La domanda, precisa, dirimente e spiazzante e che spinge Boldrini nell’angolo arriva quando Lauro le chiede se sia giusto che una persona di sinistra si compri borse da duemila euro.
- Boldrini risponde, in evidente imbarazzo, che non trova giusto spendere 2.000 euro per una borsa e che, anzi, per trovare una borsa di qualità sia sufficiente spendere duecentocinquanta euro mentre un per paio di belle scarpe ne bastino centoventi.
- La prima questione da togliere di mezzo è la più superficiale, cioè che esistano borse belle e di qualità a meno di trecento euro.
Laura Boldrini è una delle rare personalità politiche italiane con un curriculum veramente impressionante. Ha lavorato per lungo tempo alle Nazioni Unite prima all’interno del Programma alimentare e poi come portavoce per il Sud Europa per l’Alto commissariato per i Rifugiati, svolgendo missioni praticamente in tutti i posti più politicamente problematici del mondo, fino ad essere eletta Presidente della Camera dei Deputati nel 2013.
Boldrini è sempre stata attiva sulle diseguaglianze, l’odio razziale, le politiche di genere, la violenza alle donne, dimostrando una forte lucidità di visione e una vicinanza politica a quella che in Italia chiamiamo ancora estrema sinistra, anche se oggi è eletta nelle liste del Pd. Il suo è un profilo in cui un forte approccio morale coincide con posizioni politiche altrettanto forti e ne struttura in maniera chiara e riconoscibile l’identità.
Durante la trasmissione radiofonica di Radio1 Un giorno da Pecora, Laura Boldrini viene intervistata da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro a proposito del caso di Aboubakar Soumahoro e in particolare della moglie Liliane Murekatete Soumahoro, indagata insieme alla madre per non aver pagato gli stipendi dei dipendenti della loro cooperativa Karibu.
Le viene in particolare ricordato come Souhamoro abbia parlato durante un intervento a Piazza Pulita del diritto all’eleganza, riferendosi alla moglie che su Instagram appariva con una serie di borse di Vuitton, molto costose e quindi teoricamente fuori luogo rispetto alle proprie condizioni economiche e in contrasto con le battaglie politiche per i braccianti portate avanti dallo stesso Soumahoro.
La questione delle borse
La domanda, precisa, dirimente e spiazzante e che spinge Boldrini nell’angolo arriva quando Lauro le chiede se sia giusto che una persona di sinistra si compri borse da 2.000 euro. Una domanda verso la quale né lei né nessuno appartenente all’attuale sinistra italiana ha semplicemente la preparazione culturale per rispondere.
Boldrini risponde, in evidente imbarazzo, che non trova giusto spendere 2.000 euro per una borsa e che, anzi, per trovare una borsa di qualità sia sufficiente spendere duecentocinquanta euro mentre un per paio di belle scarpe ne bastino centoventi. Lo spaesamento di Boldrini nell’affrontare questo tipo di argomenti raggiunge il culmine quando le viene chiesto se lei avesse mai fatto qualche follia spendendo dei soldi in maniera istintiva, solo per piacere personale.
Dopo aver sottolineato, sgranando gli occhi, che a questo punto la discussione aveva raggiunto un livello veramente molto basso, la sua risposta è stata che i soldi vanno spesi seguendo dei precetti morali e che, di conseguenza, tutto ciò che è superfluo per lei è raramente ammissibile: gli abiti si comprano solo all’outlet e dalle cose “di marca” si sta sempre a debita distanza.
Poiché Boldrini guadagna, come tutti i deputati italiani, intorno alle 14.000 euro lordi al mese, più una serie di indennità e di bonus, il suo non è un problema economico. È qualcosa di molto più profondo e radicato che è interessante indagare perché è estremamente problematico.
La prima questione da togliere di mezzo è la più superficiale, cioè che esistano borse belle e di qualità a meno di trecento euro. Cercando su farfetch.com le borse in vendita a meno di 300 euro, di marche più o meno conosciute, si scopre che in comune hanno il fatto che il loro luogo di produzione non è specificato, mentre è chiaramente espresso per borse di fascia più alta ed è sempre Made in Italy.
È molto probabile che una borsa di Tory Burch da duecentocinquanta Euro (a prezzo pieno e non da outlet o saldi) sia fatta in Cina o in Asia e che quindi la sua filiera, oltre ad essere incredibilmente più lunga, sia anche molto meno chiaramente tracciabile. Questa, pur essendo una ovvia generalizzazione, è in genere la triste verità su ogni tipo di prodotto che proviene dal lontano oriente.
Su Farfetch.com, uno dei più importanti ecommerce del lusso, troviamo anche la fascia alta delle borse che cominciano da trentamila Euro e vanno a scendere trovando un punto di equilibrio non intorno ai duemila ma tra i tremila e i quattromila. In quest’area ci sono tutte le borse più iconiche esistenti: la Pikaboo di Fendi, la Dyonisus di Gucci, la Onestud di Valentino, La Medusa di Versace, la Loulou di Saint Laurent, la Galleria di Prada. Queste borse costano effettivamente cifre ragguardevoli ma, oltre a precise certificazioni di origine, hanno in comune il fatto che nel tempo non perdono valore ma proprio per la loro iconicità costituiscono praticamente un bene rifugio.
Il valore oltre il costo
La seconda questione, più pesante, non è legata all’incapacità di distinguere tra prodotti che fanno parte integrante della tradizione di qualità del Made in Italy e brutte copie realizzate da qualche parte in Asia, nè nel valutare quando un oggetto di lusso possa valere molto di più del suo mero costo produttivo perché ha una capacità di raccontare storie costruite in decenni di esistenza sul mercato. L’errore fondamentale di Boldrini sta nella retorica, tutta di una sinistra a cui i francesi hanno dato il nome di gauche caviar, di avvicinare il lusso, l’eccesso, la visibilità e l’apparente sperpero a qualcosa di moralmente indebito, di ingiusto, di riprovevole.
Qui non solo si evita di riconoscere che quelle disdicevoli borse generano un fatturato annuo di 9,5 miliardi di euro di cui 6,5 di export (sono dati del 2021, nel 2022 è andata anche meglio) e che una borsa di pelle intrecciata di Bottega Veneta da 3.200 Euro è praticamente un miracolo ingegneristico totalmente realizzato a mano ma si attribuisce un potere negativo alla moda, una capacità di distorcere la realtà e di deviare le capacità cognitive delle persone verso territori in cui non si distingue più il bene dal male e in cui gli oggetti stessi incarnano la devianza dalla retta via. Cioè un problema di mancanza di visione industriale diventa un problema culturale.
E qui veniamo alla terza questione, la più spinosa di tutte. Il disamore verso il lusso e la sua ostentazione ha due radici storiche: la prima è la teoria del feticismo delle merci di Marx e la seconda è il cattolicesimo.
Per Marx il valore di un prodotto dipende esclusivamente dalla quantità di lavoro retribuito che viene impiegato nel crearlo mentre il prezzo viene costruito secondo logiche feticistiche che derivano dall’artificiosità dei rapporti di forza del mercato, cioè dall’aggiungere tratti inconsistenti e irreali ad un oggetto per poter accumulare guadagno, secondo lui indebito. Tutto giusto e forse anche tutto molto ottocentesco se si pensa che nel frattempo il modello capitalistico non è stato superato ma che esistono modi meno drastici e utopici di una rivoluzione proletaria per redistribuire la ricchezza. Sono poco applicati ma esistono.
Dall’altra parte dello spettro politico ma con una profonda rilevanza culturale in Italia sta il cattolicesimo. Nel Vangelo secondo Matteo si legge: «In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: – In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Senza entrare nel merito di quanto la chiesa abbia parlato bene e razzolato male nei suoi duemila anni di storia, basta ricordare che quell’affermazione ha assunto storicamente un senso quando personaggi come San Francesco hanno cominciato a predicare la povertà della Chiesa, in aperto contrasto con gli usi e costumi di Roma e di come una delle ragioni fondamentali che hanno causato la Riforma Protestante sia stata proprio il voler ristabilire la morigeratezza perduta dal cristianesimo cattolico.
Ed è proprio attraversando l’etica protestante, secondo molti all’origine dello spirito capitalistico che finisce la nostra storia.
Eleganza e invisibilità
Mentre le due radici storiche di cui abbiamo parlato sono state talmente interiorizzate che è difficile trovarne una traccia sincera, quello che appare chiaro nelle parole di Boldrini è l’associazione tra la volontà di non apparire e l’essere accettati socialmente, il parallelo tra eleganza e invisibilità, tra buona condotta morale e understatement.
Il principio di questa diffusa credenza che pervade le enclave di sinistra, da Capalbio a Filicudi, non solo non è marxista, ma è profondamente borghese, liberista e conservatore. Boldrini, rifiutando fermamente il lusso, sta mettendo in pratica i precetti del pensiero protestante borghese ottocentesco, quello che salda l’idea di successo e autoaffermazione a delle austere divise nere maschili, quello che irrigidisce la differenza tra generi sbattendo le donne in una posizione di inferiorità mai vissuta prima, quello per cui l’apparenza è tutto e il non dimostrare ricchezza è la parte centrale delle regole dell’apparenza.
La morigeratezza, la semplicità, il voler passare inosservati e il dissociarsi radicalmente da un’idea di lusso evidente non hanno niente di cattolico, anzi, sono armi di comunicazione create dal nascente ceto medio inglese ai tempi della rivoluzione industriale, quanto di più antimarxista sia possibile pensare.
Mentre per Marx nella società capitalistica esiste un’interdipendenza totalmente artificiale tra uomini e oggetti che può essere cancellata solo superando la struttura borghese e favorendo quindi la libera espressione individuale, per la cultura capitalista britannica l’individuo si esprime solo attraverso il lavoro, il successo e il capitale economico che però, per nessun motivo, deve essere sbandierato, esibito, in quanto indice di cattivo gusto, di istinti bassi, di vanagloria aristocratica. Lo racconta molto bene Hobsbawn, storico dal profondo credo marxista.
Tutto questo sarebbe solo un simpatico e dotto pour parler se non fosse che questo atteggiamento di superiorità morale (e estetica) ha talmente tanto invaso la sinistra da farle perdere completamente il contatto con la realtà e con milioni di persone che dentro il sistema di segni capitalista, giusto o sbagliato che sia, ci vivono ogni giorno e ogni giorno sono sottoposti a pressioni immense che quasi mai hanno gli strumenti per combattere. Riconoscere la possibilità di costruire un discorso intorno al lusso, ammettendo che anche questo è un linguaggio che crea senso, potrebbe essere, incredibilmente, un modo per superare la dissociazione conflittuale tra sinistra e classi meno abbienti, accogliendo le istanze della contemporaneità, dell’oggi, senza preconcetti di superiorità che, come abbiamo visto, vengono da posti molto lontani. Posti del tutto sbagliati.
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