- Il successo del referendum in Svizzera per il matrimonio egualitario ha fatto venire la voglia di un’iniziativa simile anche in Italia.
- In realtà nel nostro ordinamento non è previsto il referendum propositivo ed è difficile che si riesca a percorrere questa strada.
- C’è però un’alternativa possibile: la legge di iniziativa popolare, da proporre raccogliendo 50mila firme (anche con lo Spid). Poi il parlamento sarebbe costretto a discuterla.
L’enorme successo del referendum sul matrimonio egualitario in Svizzera ha fatto venire, a qualcuno qui da noi, un’acquolina in bocca che è però presto delusa. Si sa, infatti, che nel nostro ordinamento (se non si conta il referendum confermativo della revisione costituzionale, che è altra cosa), al più, con un referendum, si può abrogare una legge già in vigore, o parte di essa. E una legge sul same-sex marriage, manco a dirlo, non c’è.
Né in realtà sembra percorribile la strada di un referendum abrogativo di tipo manipolativo: quei referendum, cioè, che di abrogativo hanno solo l’apparenza, ma che poi finiscono per introdurre una norma di segno positivo. Nel caso di specie, si tratterebbe di intervenire chirurgicamente sulle norme del codice civile in materia di matrimonio depurandole del riferimento al paradigma eterosessuale. «Volete voi che siano abrogati gli artt. 107 e 108 del codice civile limitatamente alle seguenti parole “in marito e in moglie”; l’art. 143 del codice civile limitatamente alle seguenti parole “il marito e la moglie” etc. etc.?»
Si tratta, per carità, di un bell’esercizio da laboratorio di diritto costituzionale, ma il risultato non sarebbe dei più soddisfacenti. L’effetto sarebbe questo: (l’esempio lo facciamo solo sull’art. 143, ma sulle altre disposizioni è ancora peggio): «Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri» diventa «Con il matrimonio acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri». Una preposizione senza soggetto, e dunque senza un compiuto senso normativo.
Ed è vero che ci può pensare poi il parlamento a rimediare con un po’ di maquillage legislativo, ma è difficile immaginare che un quesito del genere superi il vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale, la quale ha sempre ritenuto che la cosiddetta normativa di risulta debba essere auto-applicativa. Quello che esce dall’operazione referendaria, insomma, deve essere una norma direttamente applicabile. E una frase senza soggetto, evidentemente, non lo è.
La legge popolare
Quindi niente: il referendum manipolativo – che, diciamolo onestamente, sarebbe stata una gran bella cosa, pur con le perplessità di lanciare i diritti ancor più in pasto alla polemica pubblica – è destinato a rimanere in laboratorio. Con grave delusione di chi già immaginava di raccogliere 500mila firme, e anche di più, in pochi giorni. Tanto ormai c’è la firma digitale.
Ma se non servirà a raccogliere le firme per il referendum, lo Spid può però servire ad altro. Può servire a raccogliere le firme a sostegno di un disegno di legge di iniziativa popolare – e forse è questa la strada da percorrere con decisione. L’articolo 71 della Costituzione chiede almeno 50mila firme, ma c’è da scommettere che le firme sarebbero molte, ma molte, di più. E a quel punto il parlamento sarebbe politicamente obbligato almeno a cominciarne la discussione. Peraltro – questo almeno al Senato, non alla Camera – la commissione competente dovrà iniziarne l'esame entro e non oltre un mese dall’assegnazione da parte del presidente. In più, un disegno di iniziativa popolare ha un pregio: diversamente dalle altre proposte di legge, non decade con la fine della legislatura e l’inizio di un’altra. Una cosa non da poco nell’instabile forma di governo italiana.
La strada da percorrere
Certo, l’obiezione dei detrattori è dietro l’angolo, e dunque vale la pena valutarla subito. Ad essere brandita sarà quella vecchia sentenza della Corte costituzionale, la 138 del 2010, che in realtà era vecchia già quand’è nata. Secondo la Corte, l’articolo 29 della costituzione – «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» – «non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto», con riferimento alla «nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso». Certo. Anzi, diciamo: può essere.
Ma se è vero che l’articolo 29 della costituzione non rende costituzionalmente necessario il riconoscimento del matrimonio omosessuale, è vero anche il contrario: la stessa norma non rende costituzionalmente illegittimo il riconoscimento del matrimonio omosessuale. Insomma l’articolo 29 dice che vanno protette le famiglie fondate sul matrimonio tra uomo e donna; ma mica sta dicendo che non vanno protette le famiglie fondate sul matrimonio tra uomo e uomo o tra donna e donna – che dunque resta nella piena discrezionalità del legislatore che volesse dar seguito ad un’iniziativa popolare in tal senso.
La strada resta lunga e difficile, inutile negarlo. Ma la strada per i diritti è sempre lunga e difficile, soprattutto in Italia, duole dirlo. La «Spid Democracy», però, forse offre una nuova opportunità. Secondo Eurispes, il 59,5% degli italiani è favorevole al matrimonio egualitario (dati di luglio 2020). Non sarà il 64,10% della Svizzera, ma qualcosa pure conterà.
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