- Italia e Vaticano sono chiamati a decidere se rimanere nel blocco atlantico o se legittimare un nuovo ordine geopolitico plasmato da una potenza che vuole imporre un capitalismo senza altre regole che quelle decise dal governo di Pechino
- Papa Francesco non ha ricevuto Mike Pompeo, il segretario di Stato, Pietro Parolin, ha rivendicato con parole accorte (e prive anche della usuale cortesia diplomatica) il compromesso tra la chiesa e il regime comunista per la nomina di vescovi approvati da entrambi e Pompeo ha ribadito le sue critiche.
- I più realisti, indifferenti a ogni questione valoriale o di diritti umani, potrebbero sostenere che l’Italia può trovare molti vantaggi nel diventare la punta occidentale dell’avanzata cinese. Ma se è questa la linea, meglio discuterne in modo esplicito. Dissentire è (ancora) lecito.
Dobbiamo decidere da che parte stare. Il senso della visita a Roma di Mike Pompeo, il capo della diplomazia americana, il segretario di Stato, è semplice: Italia e Vaticano sono chiamati a scegliere se rimanere nel blocco atlantico, quello delle imperfette democrazie liberali, o se legittimare un nuovo ordine geopolitico plasmato da una potenza che vuole imporre un capitalismo senza altre regole che quelle decise dal governo di Pechino.
L’attacco di Pompeo, con l’intervento pubblicato dalla rivista First Things, si è diretto prima contro il Vaticano che, a differenza dell’Italia, è un nano economico ma una potenza geopolitica (l’unica globale, insieme a Cina e Stati Uniti, anche se per ragioni completamente diverse).
Papa Francesco non ha ricevuto Pompeo, il segretario di Stato, Pietro Parolin, ha rivendicato con parole accorte (e prive anche della usuale cortesia diplomatica) il compromesso tra la chiesa e il regime comunista per la nomina di vescovi approvati da entrambi e Pompeo ha ribadito le sue critiche. L’appello riguarda il rispetto dei diritti umani e in particolare dei cristiani tanto a lungo oppressi dal regime comunista che ora si trovano governati da vescovi approvati anche da quello stesso regime (i cattolici americani che sostengono l’amministrazione Trump sono sensibili al tema). Ma il richiamo è più complessivo: Pechino ora compete esplicitamente per l’egemonia, Washington deve sapere su chi può contare.
Nel marzo 2019 il governo Conte I, sostenuto da Lega e Movimento Cinque stelle, ha concretizzato una decisione presa da tutt’altro schieramento politico (il governo Gentiloni a base Pd): l’adesione alla Belt and Road Initiative, la nuova Via della Seta. Che non serve a esportare più arance in Cina, come sosteneva una campagna social dei Cinque stelle all’epoca, ma è un tassello del riposizionamento strategico di Pechino. Durante l’amministrazione Obama, gli Stati Uniti iniziano un disimpegno dall’Europa per concentrarsi sull’Asia.
È in quella fase che nasce l’idea della nuova Via della Seta, attribuita a uno studioso di relazioni internazionali, Wang Jisi, che nel 2012 sostiene: “In una situazione di movimenti tettonici delle placche geopolitiche e geoeconomiche, c’è bisogno di una riflessione e di un ribilanciamento complessivo che combini potere terrestre e marittimo”.
Nasce la via della Seta, un insieme di accordi commerciali che ha il preciso scopo di costruire una rete di influenza della Cina, di solito in paesi in via di sviluppo dove con modi più o meno ortodossi la diplomazia e le imprese cinesi riescono a imporsi come veri centri decisionali, nell’interesse di Pechino. L’Italia resta l’eccezione tra i grandi paesi sviluppati, l’unico che ha abbracciato questo progetto politico senza apparenti contropartite.
Otto anni dopo l’inizio di quel progetto, il segretario del partito comunista e leader della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, si è presentato all’assemblea delle Nazioni unite pochi giorni fa come nuovo leader globale: “Uniamo le nostre forze per sostenere i valori della pace, dello sviluppo, della giustizia, della democrazia e della libertà condivisi da tutti noi”, ha detto (con un curioso lapsus i siti ufficiali dell’Onu lo indicavano come “sua altezza Xi”, invece che il tradizionale “sua eccellenza”).
Xi si presentava come leader del mondo libero mentre i suoi critici, come l’ex imprenditore Ren Zhiquiang, finiscono in carcere per decenni con accuse di corruzione assai dubbie, mentre aziende e paesi che osano criticare Pechino o legittimare Taiwan (vedi Disney o il basket dell’Nba) vengono minacciate di espulsione dal più importante mercato del mondo, quello asiatico.
È ormai chiaro anche che la Cina ha manipolato e distorto la comunicazione sulla diffusione del Coronavirus, partito da Wuhan, non soltanto in patria ma anche a livello globale: l’Organizzazione mondiale della sanità ha sostenuto per mesi una versione minimalista della pandemia che nell’esclusivo interesse di Pechino. Xi è riuscito così a evitare che il Covid fosse il suo “momento Chernobyl”, cioè il disastro che palesa l’inefficienza dei regimi autoritari come fu l’incidente nucleare del 1986 per l’Unione sovietica.
Se a novembre dovesse vincere Joe Biden, la domanda resterebbe la stessa posta dall’amministrazione Trump: da che parte sta l’Italia?
I più realisti, indifferenti a ogni questione valoriale o di diritti umani, potrebbero sostenere che l’Italia può trovare molti vantaggi nel diventare la punta occidentale dell’avanzata cinese. Ma se è questa la linea, meglio discuterne in modo esplicito. Dissentire è (ancora) lecito.
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